Capitolo 21

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Jeremy continuava a deglutire a vuoto, a digrignare i denti, a serrare i pugni lungo i fianchi. Ricordava a stento di aver lasciato la Sala Comune per ritirarsi al quinto piano e troncare cavi elettrici da ogni dove, ma sapeva di averlo fatto. Perché sì, lui aveva un fottuto piano! E se Sergej aveva intenzione di liberarsene con la scusa della capra, certamente non ci sarebbe riuscito. Continuava a ripeterselo come un mantra, a dirselo ogni qualvolta spostava lo sguardo sull'orologio del salone. E tagliava la plastica di protezione, esponeva il rame, attorcigliava il metallo con cattiveria, con ferocia, fino a tagliarsi i palmi.

Pensare di chiudere occhio era una follia, stesso dicasi per l'assunzione del Trazodone. Tuttavia non voleva mandare a puttane il sangue di Garner, né darla vinta a Sergej.

Così, dopo essersi disinfettato le mani e aver provveduto da sé con delle fasciature strette fino ai polsi, aveva testato la propria resistenza. E lo aveva fatto con sguardo vacuo, con l'animo di un condannato a morte: lontano dal mondo, distante dalla realtà.

Aveva avuto ben poche ore per prepararsi, forse troppo poche per capire davvero il ruolo che avrebbe giocato nella retata. Ma non aveva obbiettato quando gli erano stati rifilati dei vestiti cenciosi al posto della divisa standard del Poligono, no. Aveva semplicemente storto il naso e indurito lo sguardo.

«Tutto qui?» Aveva chiesto in un grugnito, rivolgendo a Sergej un'occhiata di sfida. «Mi mandate nelle fogne senza nemmeno una protezione addosso?»

L'interpellato annuì, disse: «Tutto qui.» Non aggiunse altro, anzi. Sorrise, si lasciò sfuggire un piccolo moto di soddisfazione e finì con l'umettarsi le labbra per non schioccare la lingua.

«Immagino che l'illuminazione sia pessima, ma non possiamo rischiare che ti vedano con addosso qualcosa di compromettente» intervenne Moore. Se fosse stato per lui, in fondo, avrebbe lasciato a Jeremy almeno la Phoenix per nasconderla nel retro dei pantaloni.

«Immagino» borbottò. Mancò di guardare Daniel, lo fece per l'ennesima volta ed ebbe come la sensazione che, presto o tardi, si sarebbe portato dietro il suo segreto nella tomba – ma no, non voleva affatto che la sua tomba fosse fatta di muffa, sterco e scarafaggi. Poi, con la consapevolezza di un misero coltello infilato nell'anfibio destro, si ammutolì.

«Pronto?» A fare quella domanda fu Sergej. Lo sguardo serio, sprezzante, quasi divertito. Lo vide annuire, perciò sollevò il braccio per controllare l'orario sull'orologio da polso. «Bene: hai cinque minuti per attirare l'attenzione dei cannibali, poi ti troverai con le spalle coperte dall'URC» disse.

«Cinque minuti» echeggiò, scuotendo appena la testa. Si strinse nelle spalle, infine schioccò la lingua. Osservò il tombino dischiuso a qualche metro di distanza e si mosse alla svelta per raggiungerlo non appena udì il finto segnale degli altoparlanti della Vecchia Washington:

«La Terza Armata procederà al rastrellamento della superficie. I civili sono pregati di trovare riparo immediatamente!»

«Cinque minuti» si ripeté piano, senza la possibilità di controllare il tempo – non aveva un orologio, e anche se lo avesse avuto avrebbe dovuto affidarsi al suo ticchettio, perché non c'era abbastanza luce per consultarlo. «Devo solo sopravvivere» borbottò. Deglutì a vuoto, serrò perfino le palpebre, sentì gli anfibi affondare nella melma delle fognature e aggrottò le sopracciglia di rimando. «Sopravvivere» soffiò piano. Si sforzò di aprire gli occhi e trattenne un conato.

Nuovamente nel suo incubo, mentre correva nei vicoli delle fognature, Jeremy cercava di creare il caos vero e proprio: gridava, annaspava, batteva forte le suole nella poltiglia di merda. Tuttavia non lo faceva per la retata, no, ma per qualcosa di ancora più abbietto, di più viscerale.

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