Capitolo 13

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Sedere da solo dinanzi a una tavola imbandita era letteralmente imbarazzante per un tipo come lui. Lo metteva a disagio, lo faceva sentire stranamente inadeguato, fuori posto. E questo perché non aveva mai visto tante pietanze tutte assieme. L'odore di cucinato lo nauseava, si mischiava alla Vodka che gli riempiva lo stomaco e gli risaliva lungo le narici, gli confondeva l'olfatto.

Il palato era fuso in una miriade di colori – sì, colori, perché non avrebbe saputo descrivere le proprie sensazioni se non come una moltitudine di chiazze diverse e ammassate l'una sull'altra.

Si guardava attorno, vedeva il salone ondeggiare, l'anatra arrosto emanare vapori biancastri. E pensava, sì, non riusciva a smettere di pensare. Aveva ancora chiare in testa le immagini del seminterrato, di Sergej seduto sul divanetto rosso, di Daniel che si ostinava a succhiarglielo.

Si morse le labbra, chiuse gli occhi e trattenne una silente imprecazione. Avrebbe voluto sapere cosa stesse succedendo in quel preciso momento, dove fossero finiti i due e, soprattutto, cosa stessero facendo.

Il ticchettio dell'orologio a parete lo tormentava, gli martellava nelle tempie, nelle orecchie. E accompagnava la confessione di Daniel, la sua costellazione fatta di bruciature di sigarette, il mito di Orfeo ed Euridice.

Non bevve, né assaggiò nulla. Tuttavia aveva la gola secca ed era difficile reprimere l'impulso di allungarsi verso la brocca dell'acqua per scolarsela senza mezze misure. Così arricciò il naso, storse le labbra, deglutì a vuoto. Si sentì colpevole, complice, ancora una volta in imbarazzo.

Più pensava al silenzio tombale che regnava nel salone e più aveva l'impressione di essere osservato, sotto tiro. Ma era solo una sensazione, una stupida e fastidiosissima sensazione. Voleva scrollarsela di dosso, mandarla al diavolo, dirle di cancellarsi assieme al piacere provato nel seminterrato.

Tuttavia non riuscì a fare niente di tutto questo. E distolse subito lo sguardo dall'uscio della porta quando vide entrare il Comandante Jackson, perché non voleva incrociare quello del suo braccio destro, Daniel Begum.

«Non hai iniziato, Hunt?» Chiese. La voce pacata, da perfetto padrone di casa. «Avevo avvisato la domestica di servirti l'antipasto» aggiunse con nonchalance, prendendo posto a capotavola.

Allorché Jeremy riuscì a sollevare gli occhi dal proprio piatto e li puntò su Daniel, sulle sue guance rosse, sul segno infuocato che sbucava oltre il colletto della divisa ben sistemata. E deglutì, non seppe fare altro che quello. «Non sarebbe stato educato» soffiò. «Avrei mancato di rispetto a entrambi se avessi iniziato a mangiare da solo.»

«Ma che gentile» schioccò Sergej, servendosi direttamente dell'arrosto. «Educato e gentile...» Il tono ironico e lo sguardo distante, rivolto al proprio daffare con il coltello da portata.

Jeremy deglutì, si sentì come se fosse al posto dell'arrosto e per un attimo ricordò le parole del Colosso. Ma non era carne, no, e non era quel fottuto arrosto. Era un membro dell'SRF.

Il silenzio piombò nella stanza come un macigno, rotto di tanto in tanto dalle domande superficiali di Sergej: «Come ti trovi con la Phoenix?» O ancora: «Non è un addestramento così complicato, devi solo prenderci la mano... Hai intenzione di usare gli Uzi? Un Kalashnikov?»

E Jeremy non sapeva mai cosa rispondere, magari annuiva appena o scuoteva la testa. La verità stava di fatto nell'ebbrezza della Vodka, in quell'ubriachezza non ancora abbandonata che lo faceva sentire come in una grossa bolla di sapone.

«Hunt.» Sergej lo chiamò di nuovo. Il volto serio e un pezzo di carne inforcato. Lo puntò con la lama del coltello, lo vide trasalire. Accennando un sorriso, si assicurò di poter parlare liberamente a porte chiuse e disse: «Non osare toccarlo.»

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