Continuava a pensare al corridoio del carcere dell'SRF, alla luce che gli lampeggiava negli occhi e alle lettere che si accavallavano una sull'altra, mentre la penna scorreva sui fogli bianchi e la voce di Sergej cercava di confonderlo, di farlo sbagliare. Ma non era più lì, no. E non indossava l'uniforme standard dei detenuti, bensì un completo fresco di bucato – uno di quelli che, probabilmente, Sergej aveva dato ordine di prelevare dai suoi cassetti nell'appartamento dell'URC.
Fermo da ventiquattro ore, relegato in una villa di lusso dove ogni oggetto sembrava appartenere a un nobile, si sentiva chiuso in una gabbia d'oro. E di tanto in tanto deglutiva, rifiutava le offerte di cibo della domestica, perfino l'acqua.
Era disidratato, con la vista appannata e i sensi su di giri. Non aveva chiuso occhio quella notte e l'aveva passata al Dipartimento Medico dell'SRF senza neppure poter avvicinare Daniel.
Ciò che gli era stato detto erano parole vuote, discorsi che stentava a ricordare. Qualcosa simile al riposo, al rimettersi in sesto, al non sforzarsi più del dovuto.
Ma non ne era certo, no. Non con lo sguardo di Sergej addosso e non in quelle mura che sapevano di follia e malignità.
«Per quanto ancora dovremmo attendere l'arrivo di Jenkins?» Chiese con fare scocciato, allungando le gambe e incrociando i piedi in una posa scomposta vicino al tavolino basso di Sergej. Lo guardò con la coda dell'occhio, lo sfidò in silenzio e serrò subito le labbra. Non aggiunse altro, ma attese.
E la risposta non tardò ad arrivare: «La cena, solitamente, si serve all'ora di cena.»
«Ne ho già saltata una» borbottò laconico, evitando di sottolineare quante ne avesse mancate durante l'isolamento. «Jenkins non si è presentato e io ho passato tutta la notte a guardare il caminetto acceso del suo bel salone, Comandante Jackson...» L'ironia nel tono di voce era evidente tanto quanto sul suo viso. «Vuole segregarmi in casa sua, per caso?» Domandò sardonico. «Non le basta più il suo amante?» Lo provocò con un sogghigno tirato, irritato. Parlare di Daniel in quei termini lo irritava profondamente, ma voleva anche vedere fino a che punto Sergej si sarebbe spinto a negare, ad abbassare la voce, a divagare.
«Non è colpa mia se hai preferito guardare anziché mangiare» lo rimbeccò. «Il cibo non era certamente avvelenato...» divagò sul resto, facendo storcere le labbra a Jeremy di conseguenza. Poi, illuminato di profilo dalla luce grigiastra del giorno, accennò un sorriso. «Credo che il Capitano Begum sia appena stato rilasciato dal dipartimento Medico dell'SRF» disse.
«Lei crede?» Ancora ironico, ancora pungente. Lo aveva visto firmare il foglio di rilascio di Daniel con i suoi stessi occhi quella notte, perciò non aveva alcun dubbio in proposito a quei falsi tentennamenti. E quando lo vide annuire, sbuffò. «Beh, se lei crede che sia così... Allora deve essere così.» Ghignò, si portò entrambe le mani dietro la testa e prese una posa ancora più scomposta sotto lo sguardo frustrato di Sergej.
«Stai forse cercando di farmi saltare i nervi, Hunt?»
Questi sollevò un sopracciglio e chiese: «Perché lo crede?»
«Non lo hai ancora notato?» Prese una piccola pausa, fermandosi a scrutarlo dalla testa ai piedi. «Detesto certi atteggiamenti.»
«Che tipo di atteggiamenti?» Il sorriso sghembo di Jeremy si allargò. Sapeva benissimo che Sergej si stesse riferendo alla sua postura e al modo di fare che aveva adottato, ma non volle dargli peso – al contrario: bramava di vederlo esplodere!
«Lo sai» scandì. Non aggiunse altro, lo fulminò e si avvicinò per calciare i piedi accavallati di Jeremy. Quando lo vide deglutire a vuoto, allora, restrinse lo sguardo. «Sei in casa mia adesso, non hai modo di fuggire, né di ritorcere la questione a tuo vantaggio...»
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Butterfly Theorem
ActionJeremy Hunt ha perso tutto, ogni cosa: non ha un posto dove stare, tantomeno un motivo per continuare a vivere. Ma non è il né il primo né l'ultimo. Sono ancora gli anni Settanta, tuttavia sembra che le lancette del tempo si siano fermate da un pezz...