Capitolo 11

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L'edificio era imponente, si distingueva dalla massa di palazzi grigi per lo splendore granitico della superficie cui era composto. Assomigliava più a un palazzo d'epoca che a un rifacimento moderno, perlomeno a detta di Jeremy. E questi non riusciva a distogliervi gli occhi di dosso, cercava d'intravederne il perimetro man mano che la Dodge Charger avanzava lungo il vialetto – anche se chiamarlo vialetto era riduttivo.

Dal canto suo, Daniel, restava in silenzio. Era convinto di aver detto abbastanza, di aver parlato a sufficienza, di non dover dare a Jeremy altre dannate spiegazioni. Di tanto in tanto, però, l'osservava con la coda dell'occhio. Scorgeva un cipiglio crucciato sulla sua giovane fronte e continuava a chiedersi che diavolo avesse per la testa. Eppure non fiatava, no. Restava con lo sguardo fisso sulla strada, con le mani ben piantate sul volante. E premeva l'acceleratore, la frizione, perfino il freno. Guidava impeccabilmente, come al solito. Ma ogni qualvolta spostava di poco le gambe, induriva i muscoli del viso. Soffriva come un cane, a dirla tutta. E avrebbe preferito filare a casa sua, spogliarsi della divisa per gettarsi nudo sul letto – senza pensieri, senza crucci, solo con i propri incubi. Se lo disse anche quando dovette accostare in prossimità della grossa scalinata, quando scese dall'auto e vide Jeremy fare altrettanto.

«Wow!» Esordì così, con un suono entusiasta e lo sguardo brillante. «È davvero questa la casa del Comandante Jackson?»

«Che domanda idiota» borbottò Daniel, schioccando la lingua con fare irritato. Chiuse la Dodge Charger, diede le spalle a Jeremy e lo precedette al seguito di Sergej. Poi, lungo le scale, deglutì.

«Che hai combinato nelle docce del Poligono?» Una domanda appena accennata, soffiata.

«Niente.» Daniel balbettò, negò a mezza bocca, infine si guardò indietro e distanziò Sergej per aspettare che Jeremy lo raggiungesse sulle scale. «Quanto sei lento, Hunt!» Sbuffò, dando sfogo alla propria frustrazione con quella che, perlomeno a detta dell'interpellato, era una sua frase tipica.

«A ovvie ragioni» replicò spicciolo. «Ormai dovresti saperlo, no?»

«Resti comunque lento» mormorò. E lo precedette di nuovo, varcò la soglia della villa di Sergej per secondo. Con il cuore in gola, dopo essersi umettato le labbra, lasciò il cappotto nelle mani della domestica e pregò che il sangue si fosse ormai rappreso sulla camicia bianca. Allora raddrizzò le spalle, seguì Sergej in salone e gli sentì dire:

«Volete assaggiare qualcosa prima di cena?»

Sapeva bene a cosa si riferisse, perciò non fece che annuire e lasciò le domande a Jeremy.

«Qualcosa di che tipo?»

«Vodka» rispose Sergej. Superò la porta del salone e si avvicinò al piano bar con nonchalance. «È molto forte, del Terzo Distretto...» spiegò. E si premurò di versarne un po' in tre bicchieri diversi prima ancora di sentire la risposta di Jeremy. «La Vecchia Unione Sovietica, per intenderci.» Porse i bicchieri a Daniel e Jeremy, vedendo deglutire a vuoto quest'ultimo. «Immagino che tu non l'abbia mai assaggiata, Hunt» disse.

«No» ammise. Avvicinò il bicchiere alle labbra, ma prima ancora di accontentare Sergej non poté fare a meno che annusare e storcere il naso.

«È molto forte» ripeté questi, sorridendo sornione. Poi si avvicinò alla porta del salone, la chiuse e disse: «A ogni modo, la cena non è ancora pronta.»

Daniel serrò i denti, poi bevve il superalcolico senza pensarci. E lo fece tutto d'un fiato, a goccia, sotto lo sguardo perplesso di Jeremy. «Non è forte come al solito» si lasciò sfuggire, mentendo con la gola in fiamme. Così si diresse verso il piano bar e, come fosse a casa sua, se ne versò ancora.

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