Capitolo 35

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Due mesi e sette giorni. Sono passati esattamente due mesi e sette giorni, da quel maledettissimo scontro.

Quella sera Cameron non vinse la gara, io non ci andai, ma questo è quello che mi è stato riportato.

Sempre quella sera lui e Kyle ebbero un altro scontro, e finirono entrambi ridotti abbastanza male, ma meglio di trovare uno dei due morto.

Malia si riprese dopo qualche ora, i ragazzi mi raggiunsero in clinica, e quando fui certa che tutto fosse al proprio posto, tornai in stanza con Allison, piangendomi addosso per tutta la notte, e per tutte le seguenti che passarono.

Il giorno dopo feci le valigie, presi un biglietto per Los Angeles e andai da mia madre, mi aspettava a braccia aperte sulla soglia di casa, insieme a Jack e Jenny.

Ed anche lì, mi sfogai in un pianto liberatorio.
Sono rimasta a casa per due settimane, saltando gli studi, ma continuando a farmi mandare appunti anche da lontano.

Ho aspettato che Kyle calmasse il suo cercarmi in continuazione per scusarsi, ho cambiato addirittura numero per non farmi più rintracciare da lui, minacciando chiunque si fosse permesso di darglielo.

Poi tornai al campus, ma una volta tornata, ciò che mi aspettava era peggio di ciò che avevo lasciato.

Kyle riuscì ad incontrarmi, era estenuato e le sue scuse erano le seguenti :"Probabilmente l'ho fatto per vendicarmi di Cameron, visto che il pomeriggio mi aveva aggredito, e l'alcol ha contribuito" oppure "Non so cosa mi sia preso Crystal, una cosa del genere è imperdonabile, ma ti prego di accettare le mie scuse"

Continuò così per circa due ore, ed io ero lì, seduta sotto all'albero del grande giardino, incapace di muovermi, perché quello che Kyle mi aveva fatto, era stato...atroce.

Solo ascoltare la sua voce mi faceva vomitare persino le corde vocali, ma quel giorno stetti lì, senza muovermi, ascoltandolo vagamente, ma pensando tutto il tempo a lui.

Lui che in due mesi mi ha evitato come la peste, proprio come avevo previsto, quelle misere volte in cui decidevo di uscire con i ragazzi per migliorare leggermente il mio umore, lui non si faceva vedere.

Lo guardavo da lontano, lo fissavo, senza mai farmi vedere, anche se a volte i nostri sguardi s'incrociavano, ma durava qualche secondo, perché poi era sempre lui a voltare il viso.

Sentivo i suoi occhi bruciarmi la pelle quando mi voltavo, sentivo il suo respiro accelerato ogni qualvolta gli passavo accanto, e sentivo anche la sua indifferenza. La sua finta indifferenza.

Quella è stata ciò che mi ha distrutto di più.

Ascoltavo gli altri parlare dei suoi progressi nella squadra di football, e non facevo altro che chiedermi se fossi stata io ad ostacolare la sua "fama e crescita".

Quindi mi convincevo che lui, stava meglio senza di me, ma mentivo a me stessa, perché bastava guardarlo, oppure, bastava che io lo guardassi.

Fingeva di star bene, ma gli si vedeva in volto quanto soffriva, almeno lo vedevo io.

Fingevo di star bene, ma la notte ero io a piangere contro gli incubi che erano ritornati.

Quante volte, avevo indossato qualcosa di pesante, e, scoprendo un'uscita del campus, mi ero inoltrata nelle strade di Boston, nei suoi parchi, correndo fino a non sentire più l'aria nei polmoni e le gambe.
E tutto questo succedeva quando ancora non doveva sorgere l'alba.

Aveva detto agli altri che ci eravamo presi una pausa, le solite cose di una coppia, ed io, anche se grondante di sangue che riversava la mia anima, ho assecondato la sua risposta.

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