Capitolo 30

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5 anni prima

Cam

Mi rigirai nel letto, aprii lentamente gli occhi sgranchendomi la schiena e sbuffai notando la rivista mezza accartocciata su se stessa accanto a me, dovevo essermi addormentato. Negli ultimi giorni avevo un sacco di confusione nella testa nonostante non sapessi a cosa fosse dovuto, mi sentivo semplicemente irritabile per ogni minima cosa.

Scivolai giù dal letto lanciando un'occhiata alla sveglia sul comodino, erano solo le sei del pomeriggio, dovevo aspettare ancora quattro ore per andare da Erin. Così, uscii dalla camera, percorsi il corridoio e arrivai in cucina per prendere qualcosa da bere. Presi una bottiglietta d'acqua dal frigo e feci per tornare in camera quando mi accorsi di mia madre seduta al pianoforte, un vestito bianco che le arrivava a sfiorarle le caviglie e un dolcevita beige. Istintivamente sorrisi e mi avvicinai a lei, era ferma, il viso basso, le mani adagiate sulle gambe.

<< Ehi. >> mormorai e lei sussultò fissando lo sguardo su di me con occhi spalancati. << Scusa, non volevo spaventarti. >> le dissi ma la sua espressione non mutò, i suoi dolci lineamenti erano tesi e confusi, continuava a guardarmi fissa ma era come se non mi vedesse affatto, sembrava assente.

<< Mamma. >> dissi in un soffio e i suoi occhi si ridussero a due fessure.

<< Io. Io. >> balbettò incerta tornando a guardare i tasti. << Perché sono qui? >>

Il mio cuore si arrestò di colpo. << Stai bene? >> le domandai chinandomi per cercare di creare un contatto visivo con lei.

<< Io non... non lo so. >> i suoi occhi gonfi di lacrime tornarono su di me. << Non ricordo cosa devo fare. >> disse portandosi una mano sulla guancia con espressione smarrita, persa.

Mi ritrovai ad annaspare alla ricerca di qualcosa da dire, ma non lo trovai. Senza rendermene conto mi ritrovai catapultato in un incubo che non avrebbe mai avuto fine e che sarebbe andato avanti peggiorando sempre di più.

Nei giorni seguenti mia madre accusò altre dimenticanze, a volte non riusciva a terminare ciò che stava facendo, aveva continui sbalzi d'umore arrivando ad estraniarsi, anche se per brevi istanti, dal mondo che la circondava, trovava difficoltà nel comunicare e, altre volte, non si rendeva conto nemmeno dove si trovasse.

Un paio di settimane dopo, mio padre decise di chiedere una consulenza medica per capire questo cambio improvviso nella vita di mia madre, eravamo del tutto incuranti del fatto che avrebbe involontariamente cambiato anche le nostre esistenze.

Dopo varie indagini che compresero un esame neurologico, test cognitivi per valutare la memoria, esami del sangue e un controllo al cervello, il medico finì con il diagnosticarle una forma precoce di Alzheimer. Nel momento in cui il medico pronunciò quelle parole iniziai ad estraniarmi dalla stanza mentre continuava a spiegare cosa comportasse quel tipo di malattia. La mia testa vagò lontana da quella stanza in cui stava avvenendo la pubblica esecuzione della vita di una donna e della sua famiglia, da quel momento niente sarebbe stato più come prima, tutto stava per cambiare rapidamente.

I ricordi mi catapultarono a quando avevo poco più di sei anni, a quando passavo ore a giocare con una macchinina rossa che facevo sfilare sulla pista invisibile creata dalla mia immaginazione. Ricordavo nitidamente quei momenti, mio padre seduto sul divano a guardare un documentario in tv con il volume spento, mia madre al pianoforte riversava le sue dolci melodie nell'intera stanza. Spesso mi ritrovavo ad abbandonare la macchinina per correre a sedermi accanto a lei sullo sgabello. Quante volte mi perdevo nel suo viso, il sorriso gentile, i lunghissimi capelli biondi che le ricadevano morbidi sulla schiena.

<< Suoniamo insieme? >> mi proponeva ogni volta.

Rimanevo imbambolato a guardarla, c'era sempre stato qualcosa in lei che adoravo, qualcosa che mi faceva desiderare di diventare un uomo in grado di proteggere la donna che avrei amato per la vita.

Suonavamo spesso insieme, la guardavo attentamente con la coda dell'occhio per cercare di starle dietro. Amavo quei piccoli ritagli di tempo in cui condividevamo qualcosa che l'appassionava. Mi veniva da ridere al pensiero del come spingevo i tasti del piano con molta meno grazia di lei, eppure non me ne faceva una colpa, anzi. Il sorriso non abbandonava mai il suo volto.

<< Sei diventato bravissimo! >> mi ripeteva sempre.

Probabilmente, lo diceva solo per rendermi felice perché non ero bravo, anzi. Ero un completo disastro, la musica non faceva per me, eppure il suo sorriso mi portava a credere che lo dicesse veramente.

Questo è ciò che fa una mamma, è sempre fiera del proprio figlio per ogni suo passo in più, ogni scoperta e conquista. Non importa se ciò che fa non è il massimo o non è perfetto, per una mamma è sempre il meglio del meglio.

Quei giorni ormai erano lontani, di fronte a noi il medico continuava a parlare lentamente cercando di farci capire bene la situazione. Ci spiegarono che l'avanzamento del danno celebrale non poteva essere controllato, tanto meno rallentato, che ogni paziente aveva il suo percorso nonostante ci fossero alcuni farmaci in grado di migliorare, solo temporaneamente, i sintomi che sarebbero andati peggiorando nel tempo. Noi dovevamo solo restarle accanto, aiutarla a condurre una vita che più si avvicinava alla sua quotidianità, farla sentire a proprio agio con ciò che la circondava e che, spesso, diventava estraneo.

Non avevo la minima idea di come affrontare questo enorme cambiamento che sarebbe diventato via via più grande, ero insofferente e confuso, avevo il terrore che mia madre arrivasse a non sapere più chi fossi e, sinceramente, non avrei saputo dire come mi sarei sentito. Di certo distrutto, a pezzi, avrei perso il mio punto di riferimento, la persona che amavo sopra tutte le altre e che mi dava il coraggio di affrontare le difficoltà a testa alta senza farmi scoraggiare.

Quando mio padre decise di trasferirsi in una casa immersa nella natura dove mia madre avrebbe potuto trovare un nuovo equilibrio, mi sentii investito dal panico, dentro avevo il caos più totale, non sapevo cosa fare. Volevo stare con mia madre, volevo rimanerle accanto e cercare di aiutarla a ricordare quando la memoria avrebbe vacillato. Ma avevo paura, temevo di scontrarmi faccia a faccia con quella malattia che, lentamente, me l'avrebbe portata via. Così, quando arrivò il momento di decidere tutto per il trasferimento entrai letteralmente nel panico, non volevo lasciare mia madre, ma non volevo nemmeno allontanarmi così tanto da Erin e da ciò che rappresentava per me.

Dentro di me cominciò una vera e propria guerra all'ultimo sangue che non mi permetteva di arrivare a una scelta, avrei rischiato di diventare pazzo se non fosse venuta mia madre in mio soccorso prendendo lei la decisione per me.

<< Dovresti restare. >> mi disse col suo instancabile sorriso che non mancava mai e che non finiva di destabilizzare ogni dubbio e certezza. La studiai cercando di capire se si stesse solamente prendendo gioco di me, ma nei suoi occhi non c'era alcun velo di ironia. Mentre assimilavo le sue parole, un senso di smarrimento mi prese alla sprovvista invadendomi il centro dello stomaco, poi lei mi arrivò davanti prendendomi tra le sue braccia << Questo è il tuo posto. >> mi sussurrò dolcemente.

Non ebbi né il coraggio di ringraziarla, né di contraddirla, mi lasciai semplicemente andare accettando quella decisione con tutte le conseguenze che ne derivarono, positive e negative.

Quel giorno, tra le braccia del mio angelo, scoppiai a piangere come un moccioso di due anni, versai lacrime su lacrime prima di sigillare la parte emotiva della mia anima che avrei tenuto nascosta al mondo.

La ragazza con il cuore di lattaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora