La Tragedia del Gleno #1

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Buon pomeriggio, viaggiatori del tempo, e bentornati!

Oggi abbiamo il piacere di ospitare CalcabrinaMalebolge, che ci racconterà di una tragedia che ha segnato la storia italiana contemporanea. Lo ringraziamo per il suo contributo, che abbiamo deciso di pubblicare diviso in due parti, e auguriamo a tutti voi un'ottima lettura!

Che quella gente non fosse nuova a piegar la natura per migliorare le proprie condizioni di vita era chiaro già salendo attraverso la Via Mala, scavata nell'ostilità d'una forra, percorso d'un torrente impetuoso racchiuso fra pareti di roccia viva, spaccate da numerose cascate.

Una strada coraggiosa e impervia che conduceva alla placida Val di Scalve, scrigno verde di faggi, larici, frassini e piccole borgate armoniche, posate come petali che s'adagiavano su quei declivi.

Quel canto dolce di volatili che giungeva dai roccoli era in realtà il pianto degli zimbelli trattenuti al casel con uno spago, esche spesso rese cieche per migliorarne il cinguettio.

Un fil di fumo saliva dalle calchere, scavate nel terreno per crear da quelle buche calce viva che i valleggiani eran poi abili nell'estrarre, con cautele premurose, senza danneggiar le fornaci.

Abili nel far legname, fondamentale per superare gl'inverni implacabili di quella zona e abili a curar il loro bestiame, condotto quasi come coccolato fin ai pascoli estivi d'altura sul Pian del Gleno, la culla del torrente Povo che tanto pareva interessare a quei foresti, che attraversavano la valle a bordo d'una carovana di Daimler.

Gli strani mezzi arrancavano fin a Pianezza, da lì i foresti ben vestiti raggiungevano il Pian del Gleno a piedi, in un'ora di cammino lungo il sentiero impervio.

«Son industriali della Brianza, hanno dei cotonifici» annunciavano i valleggiani meglio informati, quelli che dalla valle talvolta uscivano, magari raggiungendo addirittura Brescia in treno.

«E cosa salgono a fare fino al Gleno? Ché possono mica metter un cotonificio, lassù?»

«Il torrente, a loro interessa il torrente. Per produrre energia da mandar nelle loro fabbriche.»

Per quanto animati di curiosità e legittima diffidenza, questi discorsi mormorati la sera, nelle stalle rischiarate da lumi fiochi, non procedevano molto oltre: in effetti non era semplice comprendere come un modesto torrente qual era il Povo potesse far funzionare delle fabbriche distanti, chè loro a malapena ne sfruttavano il corso per azionare i mulini. Quegl'anni densi di guerra spopolarono la valle dagl'uomini e furono donne e ragazzini a realizzare le opere di supporto all'ambizioso progetto che sarebbe seguito, mentre i foresti s'occupavano dei rilievi topografici della conca. Una diga, si mormorava in quelle stalle la sera, senza aver ben chiaro come si potesse in effetti sfruttare lo sbarramento d'un corso d'acqua e percependo un reverenziale timore all'idea di voler domare la natura, pur senza la consapevolezza dell'effettiva, mastodontica portata di quell'intervento.

Fu molta la pietra asportata a mani nude dagli speroni rocciosi a natural chiusa della conca, poi riutilizzata con altro materiale di riporto per la creazione del tampone a gravità: dalla valle si vedeva appena e non appariva poi minaccioso. Quanti s'attendevano un discorso rassicurante dai quei fratelli Viganò, che parevano invadere la valle con l'atteggiamento di un nemico, restaron delusi: costoro si limitarono a offrire l'opportunità d'un lavoro, pagato puntualmente in un momento d'Italia fragile ma volto al progresso, e la promessa della luce.

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