Carried away from home

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''Just don't let me fall asleep

Feeling empty again

'Cause I fear I might break

And I fear I can't take it

Tonight I'll lie awake

Feeling empty.''

Parlammo di mia madre per un tempo che mi sembrò interminabile, all'interno del quale furono varie le volte in cui non riuscii a trattenere i singhiozzi disperati che interrompevano bruscamente il fiume di parole che stavo pronunciando. Raccontai all'ispettore Nishimura dell'incredibile Quirk di mia madre e di quanto fosse un dono più che un semplice potere; gli spiegai di come le si era rivoltato contro attraverso i soprusi di mio padre -che a volte la sfruttava per divertire se stesso, altre perché era lei che volontariamente si intrometteva per proteggermi- e che, alla fine, l'aveva indotta alla pazzia.
Gli rivelai quanto fosse stato tremendamente difficile portare avanti la mia vita negli ultimi due anni, facendomi carico anche di quella di mia madre, dover badare a lei e non poter pretendere lo stesso trattamento, osservare con invidia le mie compagne di classe che potevano permettersi di sfruttare al meglio il proprio tempo libero, prendendo il treno per il centro commerciale della città, piuttosto che dover percorrere in fretta la strada di casa subito dopo la fine delle lezioni, con il cuore martellante in petto e l'ansia di una tragedia che poteva essere accaduta in mia assenza.
Ma più di tutto odiavo il fatto che mia madre fosse inconsapevole di quello che facevo per lei, di cosa le accadeva intorno, della mia vita, di me. Ed era difficile non poter pretendere nemmeno un abbraccio.
Non sarei riuscita a continuare così ancora a lungo, questo era chiaro; tuttavia mi sentivo estremamente legata a quella vita, mi sarei sentita completamente persa se fosse venuto a mancare un solo pezzo di quel mosaico, perché avrebbe portato via anche un pezzo di me.
E così fu.
Quella parte di me, probabilmente la più grande e quella in cui risiedeva il fulcro della mia empatia -che rimediava a non rendermi ancora del tutto un automa-, se ne andò via con mia madre quella notte.

Le conclusioni tratte da quella conversazione –o meglio, interrogatorio- furono tragiche e devastanti: Nishimura cercò di farmi capire con tutta la delicatezza di cui –supposi- era capace, che mia madre aveva bisogno di cure che io non potevo darle, e che la stessa cosa valeva per me. Il fatto che mia madre fosse incapace di prendersi cura di una persona era evidentissimo, ma per un po' non lo accettai. Mi sarebbe servito davvero molto tempo per assimilare e realizzare ciò che era successo in quelle ore, poi, forse, avrei capito e me ne sarei fatta una ragione.

Dopo quel discorso destabilizzante, l'ispettore era uscito dalla stanza, lasciandomi sola con le mie lacrime e la consapevolezza che niente sarebbe stato più come prima, e soprattutto che oramai non sapevo cosa aspettarmi. E se fossi stata di nuovo in pericolo, ora che ero vulnerabile e sola?

Poi era rientrato reggendo un grosso fascio di fogli in una mano ed una tazza di caffè nell'altra, arrestando i miei pensieri autolesivi e aumentando la mia irrequietezza. Il profumo di caffè invase l'aria tanto da provocarmi un leggero senso di nausea.

—<<Dunque, ti assegneremo un assistente sociale che ti accompagnerà a casa e si prenderà cura di te nei giorni seguenti, necessari per portare a termine alcune procedure legali prima di poterti assegnare ad una nuova famiglia.>>
Prese un piccolo sorso dalla tazza, che gli bagnò visibilmente i folti baffi. Poi parlò nuovamente: —<<Dai fascicoli della tua famiglia, leggo che gli unici parenti che non hanno lasciato il Giappone sono i tuoi zii, gli Uchida.>> lesse qualche riga di un foglio verso la metà del blocco di carta.

<<Tokyo, eh? Ti piacerà lì.>> disse con noncuranza.

Strabuzzai gli occhi: —<<Ma è dall'altra parte del Paese!>> esclamai. <<La mia vita è qui, frequento un'ottima scuola, e...la mia casa...>>

Mi interruppe e mi liquidò in tono sbrigativo, invitandomi a uscire dalla stanza degli interrogatori poiché il nostro colloquio era concluso.
Mi disse che sarebbe andato tutto per il meglio e che sarei stata bene, prima di lasciarmi nelle mani della mia nuova balia. Le solite frasette di circostanza, pensai scuotendo la testa amareggiata.

Mentre me ne stavo seduta stanca e scomposta sulla dura sedia di plastica, in attesa nell'ufficio dell'ispettore, qualcuno comparve sulla soglia della porta: era una donna di bassa statura e sotto la larga casacca a fantasia floreale nascondeva un fisico robusto e piuttosto in carne; ipotizzai che fosse lei l'incaricata a tenere d'occhio l'orfanella che, per colpa loro, ero appena divenuta. Quando entrò notai che il suo viso era illuminato da un dolce sorriso incorniciato da un paio di labbra carnose e rosse, e altrettanto dolci erano i suoi occhi, celati dietro il vetro sottile di un paio di occhiali dalla montatura nera. Venne più avanti posandoli sulla mia figura.

—<<Ti verrà il mal di schiena se resterai seduta in quella posizione.>> mi riprese.

Perfetto, pensai. Non conosce nemmeno il mio nome e già mi rimprovera.

—<<Tu devi essere Akiko.>> affermò, smentendo immediatamente la mia supposizione. Annuii
leggermente.

—<<E' un piacere fare la tua conoscenza. Io sono Haruka Hasegawa, ma puoi chiamarmi per nome.>> il suo sorriso si allargò, mentre si inchinava. <<Mi prenderò cura di te in questi giorni e quando potremo procedere, mi assicurerò che ti troverai bene nella tua nuova casa.>>

Nonostante il suo tono fosse affettuoso, percepivo ugualmente una certa freddezza e professionalità nel suo comportamento, perciò, con lo sguardo ancora vacuo che nascondeva velatamente un accenno d'ira e d'odio, pronunciai piattamente le mie quattro parole: —<<Vorrei tornare a casa.>>

Avevo appena sepolto la testa sotto le mie coperte, finalmente, consapevole del fatto che da lì a un paio d'ore avrebbe albeggiato. Ma non sarei andata a scuola quel giorno, e nemmeno il giorno dopo, né quello dopo ancora. La mia vita stava cambiando, o meglio, l'aveva già fatto. Ripensai a tutto ciò che era successo nelle ore precedenti, di come mi avessero strappato via mia madre, senza nemmeno darmi la possibilità di salutarla un'ultima volta prima di portarla via: mi dissero che aveva avuto un esaurimento nervoso durante l'interrogatorio, ed erano stati costretti a sedarla.
Ricordai le loro parole: <<Tua madre ha bisogno di cure ed attenzioni che tu, per il momento, non sei in grado di darle. Vuoi continuare a farla soffrire o vuoi che stia bene, da noi?>>; e ancora, quelle con cui mi ricoprivano di false speranze, e allo stesso tempo sminuivano tutto ciò che avevo fatto da sola negli ultimi tempi prendendomi cura di entrambe: <<Presto starà meglio, e tu potrai venire a trovarla senza recarle ulteriori stress o traumi.>>
Per il momento, ad ogni modo, mi era proibito di vederla, poiché secondo loro ero io a farla stare così male e riportarle alla mente la causa per cui aveva sofferto tutto quel dolore.

Strinsi gli occhi in un vano tentativo di ricacciare indietro le lacrime che avevano cominciato a bruciare sotto le palpebre.

E poi, dopo un lasso di tempo incommensurabile, mi addormentai così. Con le guance umide ed un profondo odio per tutti loro.

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