XXV - Wokan (1/2)

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1

Separati da ruote di distanza, Raymond Montego e Chase Bowman sedevano al fuoco di bivacco, il secondo circondato dalla taiga dell'altopiano lacustre, il primo già addentro il paesaggio lunare delle grandi altezze, raggiunto dopo una corsa contro i suoi demoni interiori grazie ad una montatura che non necessitava cibo o riposo.

Entrambi soli, i due uomini guardarono le fiamme...e si pensarono; quindi il pistolero appoggió un ramo sul fuoco e il bandito ne prese uno che bruciava per accendersi la sigaretta.

Io ti avró.
Tu morrai.

Entrambi si giocavano tutto in quelle preghiere portate dal fumo che saliva: la speranza di un futuro libero e felice, l'auspicio di una vendetta sanguinosa...e poi?

...e poi saremo noi.

Chase Bowman sorrise pensando a ciò che lo attendeva dopo quell'avventura, così fece Raymond Montego: sia che si trattasse di atomi ancora viventi, sia di un'ultima ordalia verso il perno corroso del Creato, in entrambi i casi accennava una promessa di pace e per essa valeva la pena rischiare e uccidere.
I gesti si ripeterono scambiati, quindi i due uomini si girarono, l'uno verso destra e l'altro verso sinistra, e rabbrividirono.

"Che c'è?" chiese Helena, sul viso i segni dell'astinenza tenuta a bada misti a quelli delle ustioni solari, e il pistolero scosse la testa incenerendo in un solo tiro la sua dose di tabacco.

Che c'è? chiese Faccia-Dipinta, onirica e sfocata nel tempo, distante quanto può essere distante un sogno, e il bandito sospirò scacciando quello scherzo della mente.

"Nulla".

Poi i due se ne accesero un'altra, entrambi soli, e la ruota del Ka diede uno scatto in bilico sulla china della disgrazia; altrove un Uomo in Nero che osservava giunse le mani a cuspide e sorrise mostrando zanne di bestia alla luce rosa della sua sfera.

2

Era tagliente il paesaggio del Wokan sopra la linea dei diecimila piedi, come il respiro gelido delle cime di Nord-Ovest fra cui la via indiana condusse le esistenze piccole di chi cacciava e di chi fuggiva.

Lasciate indietro le foreste degli altipiani nivali, montagne antiche di rocce effusive si chiusero intorno ad una pista disagevole che si inoltrava fra picchi di basalto e rocche di kimberlite nel gioco tetro del verdenero vulcanico. Gole moreniche nascondevano la luce del sole dietro sponde alte centinaia di piedi, si abbassavano in pietraie estese fino a dove l'occhio poteva vedere, si allargavano in laghi glaciali dalle acque ferrose e diventavano torrenti scavati attraverso colate di lava, che scomparivano dentro precipizi verticali o aperture orlate di stalattiti di ghiaccio.

Era un mondo bello e inquieto quello delle terre selvagge, nelle fumarole che dipingevano di giallume solforoso la desolazione e velavano il sole dell'estate, nei brontolii che salivano dal ventre della terra e facevano eco al rombo delle frane, nei piattumi interrotti da guglie di ossidiana e crepacci aperti su profondità fumose dove luccicava metallo artificiale. Un mondo dove la vegetazione era ridotta a tappezzamenti di muschio, Pan Torracca e ascomiceti secolari, un mondo dove gli unici esseri che avvistarono furono aquile solitarie, marmotte e stambecchi dalle corna intarsiate.

Era un mondo distante e inospitale quello in cui penetrarono, che si beava della sua solitudine millenaria e si rigenerava da altrettanto nella breve estate artica che non era riuscita a cancellare la neve, in cui inseguitori e inseguito s'imbatterono verso il terzo giorno di marcia: lingue bianche che annunciavano problemi gettandosi di traverso alla linea di cippi e pali di legno pietrificato seguita fino a quel momento come una traccia di briciole.

Antico SegretoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora