E’ sempre stata tutta colpa mia, Chia, me la sono sempre andata a cercare.
Forse il fatto è che io non sono portata per queste cose. Forse io non so proprio come si fa a stare bene veramente, ad essere felici.
Adesso tu te ne starai qui in silenzio a lasciarmi sfogare, a guardarmi con quegli occhioni malinconici e compassionevoli come si fa quando ci si trova davanti ad una persona che sembra si stia rompendo in mille pezzi. E nel frattempo penserai “si lamenta tanto di quello che non ha che si scorda di tutto quello che ha e che potrebbe avere”.
Probabilmente starai alzando mentalmente gli occhi al cielo pensando che sono la regina di tutti i drammi, che non faccio altro che singhiozzare sul pavimento da una settimana senza avere la forza di reagire.
E’ questo il punto.
Io non ho più le forze.
Qualsiasi cosa faccia o pensi mi fa sentire sporca, inadeguata, spazzatura.
Tutto quello che ho attorno mi ricorda che è colpa mia se sono finita così.
E’ colpa mia se mamma e papà hanno divorziato. E’ colpa mia perché quel maledetto pomeriggio di sei anni fa io e mamma siamo tornate a casa presto. E sai perché? Perché avevo lasciato il telefono su quel lurido tavolo, dentro quella schifosa cucina.
Vorrei solo non aver visto mio padre con quella donna. Nella nostra casa. Sul nostro splendido divano rosso, finito in una discarica quella stessa notte.
Vorrei non aver visto gli occhi di mia madre in quel momento. Vorrei non aver sentito i suoi pianti mentre lavava i piatti, mentre faceva scorrere l’acqua della doccia convinta che io non la sentissi.
Avrei preferito le urla, i piatti rotti contro al muro, le foto strappate. E invece l’ho vista tentare di non cadere a pezzi davanti a me per non farmi pesare il fatto che era stata colpa mia.
Starai pensando “prima o poi l’avrebbe scoperto, non è stata colpa tua”.
E se invece non fosse successo? Se invece quella era l’ultima volta che si vedevano? Magari mio padre si era pentito, si era reso conto delle sue cazzate e aveva deciso che quello sarebbe stato un addio.
Ma non ho avuto né il tempo né il modo per scoprirlo. Da quel giorno sparì dalla faccia della terra. Non una telefonata, un messaggio di buon compleanno, un saluto distratto per strada. Si è chiuso quella porta dietro facendo un gran casino ma senza dire una parola.
*sospiro affannoso* *lacrime che scendono silenziose*
Non so dirti se ho fatto più male a mia madre o a me stessa.
Ricordi quel sabato di quattro anni fa, quando siamo uscite con Rick e il gruppo e Sara mi ha chiesto se potevo nascondere a casa mia l’alcol rimasto?
Bene. Dopo una settimana sono andata a controllare in cucina sotto il lavandino e non c’era più nulla.
Si era scolata tutto mia madre un paio di giorni prima.
Ma io ero troppo distratta per farci caso. Ero troppo immersa nelle mie patetiche vicende per rendermi conto che non ero l’unica che soffriva. Semplicemente le persone che avevo attorno erano più brave di me a convivere con il loro dolore.
Mi hanno sempre trattata come un cartone con la scritta FRAGILE e mi sono convinta nel tempo di esserlo davvero. Mi sono convinta del fatto che era il mio destino essere in quel modo. Essere sempre di malumore, rispondere male a tutti, mandare all’aria i miei stessi piani, isolarmi per giorni senza farmi sentire.
Pensavo fossero cose insite in me che non avevo il potere di cambiare.
Molte volte mi ripetevo “Io sono l’anello debole della catena, quello che cede più facilmente. Sono sicura che capiranno se sbotto per qualsiasi cosa, se sono sempre arrabbiata, se a volte mi capita di stringere i pugni fino a conficcarmi le unghie nella carne per provare a stare calma”.
E sono stata così dannatamente egoista da pensare che solo io stessi così. Come se avessi l’esclusiva sul dolore, mentre tutti gli altri avessero il solo compito di rassicurarmi, non inveirmi contro e non mostrarmi la loro sofferenza per timore di distruggermi.
Ma forse sono stata io a distruggere tutti, compresa me stessa.
Per capire come uscirne mia madre ci ha impiegato due anni. Ventiquattro lunghissimi mesi in cui sapevo solo gironzolarle attorno per un paio di minuti al giorno facendole domande del cazzo del tipo “come stai oggi?” che liquidava prontamente con un banale “meglio di ieri” che mi facevo bastare convincendomi di avere la coscienza pulita.
Non ho mai saputo dimostrare il mio amore. Non l’ho mai abbracciata, baciata, fatta ridere. Non sono neanche stata una buona compagnia durante le sue giornate sì, figuriamoci durante quelle no.
E’ sempre stato così per me. Davo la colpa al mio carattere, al mio essere introversa, schiva. Davo la colpa alle esperienze che ho vissuto, che mi hanno segnata. Il dolore, la malattia, la perdita, la mancanza.
Ma forse è proprio un disfunzionamento, qualcosa che si è inceppato tempo fa e che non so come aggiustare, come mettere a posto.
E’ per questo che ho lasciato entrare Diego nella mia vita. Perché alla base c’è qualcosa che mi spinge a mettermi nei casini perché mi piace la sensazione che provo quando mi autodistruggo, quando cerco di smantellarmi pezzo per pezzo.
Io mi sono innamorata di lui anche se continuavo a negarlo, perché in realtà non lo sapevo. Perché nonostante le vendette, i graffi, i pianti, gli insulti, ho sempre visto in lui la mia immagine riflessa. Ho visto più di una volta il mio sguardo afflitto nel suo, le mie mani insanguinate nelle sue nocche sbucciate, il mio voler tener lontani tutti per paura di distruggerli nel suo bisogno di amore e rassicurazioni.
Ci siamo sempre completati a vicenda, anche se non facevamo altro che sbraitarci contro, che alzarci le mani, che alzare la voce ma abbassare la guardia.
Ci siamo sempre fatti male perché conoscevamo i nostri punti deboli, perché ce li siamo cuciti addosso in tutti questi anni, con tutti nostri sbagli, i rimorsi, i rimpianti.
Ci siamo sempre conosciuti a memoria senza il bisogno di parlarci, di toccarci, come quando ti chiedevano di trovare la tua casa sul mappamondo e senza esitazione il tuo cuore ti riportava a Napoli. Anche se adesso sei a Roma, anche se adesso sei lontana dal tuo mare, dalla tua stanzetta vicina al terrazzo.
E’ questo il punto. Ci portiamo dentro certe cose, certe persone, senza avere il potere di opporci.
E il fatto che Diego mi abbia tradita in una squallida discoteca, con una ragazza che non aveva mai visto, la sera dopo avermi giurato amore eterno mi ha fatto sbattere la testa così forte da non farmi capire più niente.
E’ per questo che ho perso la verginità in un letto che non era il mio, con un ragazzo che mi voleva solo usare, che mi ha sempre considerata come una “scopata e via”.
E me li sono meritati i singhiozzi che hanno inzuppato il cuscino, il vomito sulle scarpe, il sangue sui vestiti, le ansie, le paure, le paranoie, il voler solo affogare nella vasca da bagno dove mi piaceva fantasticare su come sarebbe stata la mia vita quando avessi imparato ad essere felice.
Me la sono cercata.
Chissà se mi ha trovato lei o le sono corsa incontro io.
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Parole come uragani
PoesíaLe parole che nessuno dice, quelle che da leggera brezza si trasformano in uragani.