18.

1.4K 25 16
                                    


Ho litigato con Filippo.

Eravamo in videochiamata su Skype come tutte le sere. A un certo punto, saranno state le nove e mezza, lui si è accorto che ho tagliato i capelli. Mi ha chiesto perché. La domanda mi ha spiazzata: gli ho risposto che li ho tagliati per l'unico motivo per cui si tagliano i capelli, perché erano diventati troppo lunghi.

Non mi è sembrato convinto. Ha detto che per una donna cambiare taglio non è mai un gesto neutro, che è gravido di sottotesti, che è sintomatico di un desiderio inconscio di cambiare vita.

Mentre gli spiegavo che sono solo andata a farmi dare una spuntatina dai cinesi all'angolo, ho realizzato di avere la respirazione irregolare e una lieve accelerazione del battito.

Filippo ha detto che è preoccupato. Che negli ultimi tempi percepisce del distacco da parte mia. Che la prossemica del mio corpo manda output contrastanti. E che ha controllato la cronologia di Skype e nel mese corrente le nostre conversazioni hanno avuto una durata media di cinquantasei minuti contro i cinquantanove del mese scorso, un calo secco di tre minuti, un dato che non si può ignorare.

In quel momento, con una punta di stupore, mi sono resa conto di essere in stato di alterazione emotiva, forse addirittura un po' incazzata.

Con fermezza, ma senza alzare la voce, l'ho interrotto. Gli ho detto che secondo me in questo periodo non è nel pieno possesso delle sue facoltà. Che le pressioni alle quali lo sottopone l'attività accademica stanno annebbiando la sua serenità di giudizio. E che ha bisogno di ritrovare il giusto distacco dalle cose.

Mi ha risposto che ribaltare le accuse è il tipico atteggiamento di chi ha qualcosa da nascondere.

Lì devo aver alzato la voce di un semitono. Gli ho chiesto per favore di non chiamarmi per un paio di giorni e di usare quest'intervallo per riflettere. Lui stava per replicare, ma ho chiuso la chat e spento il portatile.

Poi, stupidamente, ho aspettato che il mio cellulare suonasse e che sul display comparisse il nome di Filippo.

Non ha suonato.

Ora sono le dieci meno un quarto e io sono raggomitolata su una poltrona del salotto. Ho ancora in mano lo smartphone e sto ancora fissando lo schermo. Il pretesto è che sto consultando il sito dell'Associazione Italiana Studi Lacaniani. La realtà è che sto fingendo di leggere la stessa riga da cinque minuti.

Temo di aver commesso un madornale errore. Io non voglio perdere Filippo, so che è uno su un milione, voglio solo che superi questa fase. Ma ho paura che mi abbia fraintesa, che abbia preso il mio gesto come un segno della mia volontà di rompere con lui, e che si comporti di conseguenza.

La porta d'ingresso si apre, qualcuno entra in casa. È Mattia, o Matteo, o come diavolo si chiama. Ha addosso scarpe da ginnastica, i pantaloni di una tuta e una giacca di felpa col cappuccio chiusa da una zip. A tracolla ha il borsone da palestra. Mi vede, mi saluta.

Faccio per ricambiare e scoppio a piangere.

Cazzo, che vergogna. Da zero a dieci mi vergogno dodici. Non sto semplicemente piangendo, sto singhiozzando come una bambina. Questo tizio penserà che sono tutta scema. D'altronde è più o meno quello che penso io di lui.

Matteo, o Mattia, si avvicina e si piega sulle ginocchia per guardarmi in faccia. Scommetto che adesso mi chiede se c'è qualcosa che non va, tanto è la serata delle domande stupide.

Mi chiede se mi va una birra.

Alle dieci siamo seduti al tavolo della cucina davanti a due Tennent's. Mattia si è slacciato la zip della felpa, sotto c'è una maglia elasticizzata con scritto a grandi lettere NO PAIN su un pettorale e NO GAIN sull'altro. Io ho smesso di piangere e ho cominciato a parlare. Sarà che di solito non bevo, sarà che in alcune circostanze è più facile confidarsi a un estraneo, ma gli sto esponendo la mia situazione con dovizia di dettagli. In lontananza echeggia il brontolio di un tuono.

L'amica genitaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora