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Stanotte ho dormito malissimo, quello che in termini clinici si definisce sonno frammentato con microrisvegli. Mi sono alzata tardi, verso le nove. Aveva smesso di piovere e in casa, oltre a me, non c'era nessuno.

Avevo pianificato di lavorare alla tesi tutto il giorno sulla base del solito schema di ottimizzazione della produttività che prevede sessioni di lavoro da cinquanta minuti alternate a pause da dieci ma, caso strano per quanto mi riguarda, oggi ho difficoltà a concentrarmi. Ho trascorso l'intera mattinata ad andare e venire dalla scrivania. Ho caricato la lavatrice, steso il bucato, ho perfino pulito il bagno grande benché questa settimana non fosse il mio turno.

Dopo pranzo le cose non sono migliorate. Ora sono seduta davanti al computer, ma il file della tesi è fermo all'ultimo salvataggio di ieri e ridotto a icona. La mia testa e il mio cursore continuano a vagare a caso. Archivi di vecchi programmi tivù, vedute dell'Africa subsahariana su Google Maps, recensioni di album prog rock. Così, senza alcun criterio.

Intorno alle sette di sera decido di andare a buttare la spazzatura. Tiro fuori dal secchio dell'umido il sacchetto di plastica compostabile, annodo i manici, ficco in un altro sacchetto le bottiglie di birra vuote e, con un carico di vetro tintinnante in una mano e uno di marciume maleodorante nell'altra, vado. Quando arrivo davanti alla porta dell'appartamento, sento una chiave che si infila nella serratura dall'esterno. È tornato.

La maniglia si abbassa. La porta si apre. Sulla soglia c'è qualcuno, ma non è lui.

È Eva.

Ha addosso una maglietta dell'Hard Rock Cafè di Bratislava, jeans taglia skinny che hanno l'aria di contenerla a malapena, stivaletti col tacco largo e uno spolverino con un collo di pelliccia sintetica che sembra la criniera di un peluche. Nella mano destra, quella con la quale io porto un sacchetto di vuoti a perdere, Eva tiene il manico di una Samsonite; nella sinistra, con cui io reggo un grumo di materiale organico assortito, lei stringe la tracolla di una Liu-Jo. Sul naso ha un paio di occhiali dalle lenti tonde e specchiate.

Incurante dell'orario Eva grida un bonjour pronunciato alla slava, molla manico e tracolla e mi abbraccia così forte che mi fa male: sento le sue tettone pressate contro le mie tettine e uno Chanel spruzzato con generosità che si mischia al puzzo proveniente dal sacchetto dell'umido.

Eva mi molla e dice che le sono mancata. Che le è mancato quasi tutto dell'Italia. Che in questa settimana ha mangiato, dormito e si è rotta le palle. E che l'unico vantaggio della provincia rurale slovacca è che i dentisti costano poco. A sostegno di quest'ultima affermazione si solleva con un pollice il labbro superiore e, non credo ai miei occhi, mi mostra la novità: un brillante, neanche piccolo, fissato a un incisivo. Superato lo shock estetico, riesco a fatica a simulare apprezzamento. Lei sembra molto orgogliosa.

Chiede se in sua assenza è successo qualcosa. Prima che possa risponderle riprende il manico della Samsonite, mi supera a destra e dice che ne parliamo stasera davanti a due pizze. Si allontana lungo il corridoio alle mie spalle tirandosi dietro la valigia e dicendo che la cosa che le è mancata di più è la pizza. Mentre scompare nella sua stanza la sento dire che gli slovacchi vanno fortissimo con le zuppe di crauti, ma la pizza non la sanno fare.

Non le racconterò niente. Non c'è niente da raccontare, perché non è successo niente.

Faccio finalmente per uscire e vado a sbattere contro qualcuno che fa per entrare. Mi cadono i sacchetti, tonfo sordo da un lato e tintinnio cristallino dall'altro. Mani forti ma gentili mi cingono la vita nell'eventualità che io abbia perso l'equilibrio. Per un attimo annuso da vicino la persona che ho davanti.

"L'ormone maschile detto androstenolo ha un odore simile a quello del muschio".

Mi divincolo, le mani che mi stringevano mi lasciano andare. Mattia indossa una camicia bianca e un completo scuro. Sembra un altro uomo rispetto a ieri, ma fa sempre la sua figura.

Gli chiedo scusa per essergli finita addosso. In realtà gli sto chiedendo scusa anche per avergli sbirciato il cazzo di nascosto ieri notte, ma questo lui non lo sa. Mi risponde che nella vita ci sono cose peggiori di una bella ragazza che ti casca tra le braccia. Accenna un sorriso, ricambio. Credo di essere un po' arrossita.

Dice che ieri sera è stato bene. Che non stava così bene da parecchio tempo. Che non gli capitava da un pezzo di sentirsi così a suo agio con una persona. Che una di queste sere, se mi va, possiamo rifarlo. E che in frigo ha una scorta di Tennent's, ma se preferisco un'altra marca può organizzarsi.

Poi, all'improvviso, si fa serio. Per quel che vale l'impressione di qualcuno che fino a ieri non aveva mai trascorso più di tre minuti nella stessa stanza con lui, si fa serio come non l'avevo mai visto prima. Si fa serio e dice che deve dirmi una cosa.

Prima che possa dirmi cosa suona il citofono. È un suono che in questa casa non si sente spesso: io e Eva abbiamo entrambe le chiavi del portone e non riceviamo quasi mai ospiti. Prendo la cornetta appesa a fianco della porta, l'accosto all'orecchio, chiedo chi è.

È Filippo.

L'amica genitaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora