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Sono le 4:00 del mattino quando Alex si risveglia nel letto di Anton, dopo quella che gli sembra essere stata la notte più bella della sua vita. Le sue braccia lo avvolgono ancora, continuando a trasmettergli calore, anche nel sonno. Mentre osserva quelle ciocche bionde e quelle labbra morbide, sente che qualcosa nel suo cuore è drasticamente cambiato. Il modo in cui è stato amato, accarezzato, desiderato, lo emoziona ancora adesso. Quel corpo odiato, che aveva imparato a ignorare e a temere, è stato accolto completamente, senza riserve.

Sfiora la guancia di Anton in una carezza lievissima e lo sente mormorare il suo nome.

– Ti amo, – sussurra Alex muovendo appena le labbra. Gustando l'effetto che quella parola esercita dentro di lui. – Ti amo, – ripete ancora più piano. Sorride e pensa che forse potrebbe concedersi di pensare che la vita possa essere anche magica ogni tanto. Magica e sorprendente.

Sospira sentendo il suo stomaco brontolare: ha fame, una fame vorace che non provava da... anni. Si scioglie con cautela dall'abbraccio di Anton senza svegliarlo, si riveste e va a cercare qualcosa da mangiare.

Sorpassa il porticato esterno, rabbrividendo per il gelo notturno. Ammira il luccichio della neve che ha ricoperto ogni cosa ed entra rapido nell'atrio.

Nella penombra che avvolge il salone d'ingresso, le scale imponenti fanno una certa impressione, ma lui non ci fa più caso. Sa che non c'è motivo di avere paura. Avanza tranquillo, già individuando l'arcata che dà alla cucina, quando scorge un'ombra alla sua destra. D'istinto pensa che sia qualcuno della famiglia, forse Francoise o Quentin, che hanno avuto la sua stessa idea di uno spuntino notturno, ma la sagoma è troppo grande per appartenere a un essere umano. Troppo. Troppo grande...

Alex boccheggia ghiacciato, incapace di respirare, di fronte al cavallo rampante alto due metri e mezzo collocato su un piedistallo marmoreo a pochi centimetri dal suo braccio destro. Si sente crollare all'indietro, le gambe di gelatina, la mente stordita, polverizzata. Rantola e si porta una mano al petto. Il cuore impazzito.

– Ah! – espira l'ultimo fiato che ha in corpo. Serra gli occhi tremando come una foglia, ma è inutile: l'immagine di quell'enorme animale è ormai stampata a fuoco nella sua mente e incombe su di lui, gli crolla addosso, vuole sbranarlo, soffocarlo. Ombre, ombre scure che schiacciano, zoccoli che colpiscono, che feriscono. Alex cade di lato, incapace di muoversi, incapace di respirare, incapace di chiedere aiuto.

D'un tratto si accende una luce in cucina. – Alex?

La voce di Gérart taglia come una lama la nebbia in cui è avvolta la sua mente. Passi che si avvicinano di corsa, due braccia forti che lo scuotono. – Alex? Es-tu blessé? (= "Hai male?/Sei ferito?") Sei caduto? Alex?

Lui inspira a forza un sibilo d'aria attraverso la gola contratta e trema con violenza. – S...statua, – esala.

– La statua? Il cavallo? – esclama il ragazzo – L'ha portato papà ieri sera, ha detto: "è una consegna urgent". C'era anche un fattorino che mi ha regalato una bonbon (="caramella") e io gli ho detto...

Alex smette di ascoltarlo. Ha bisogno di aria, di ossigeno, il cuore batte sempre più furioso nel suo petto e comincia ad andare a balzi e singulti. Ha bisogno che qualcuno lo sposti da quel mostro di ferro che incombe su di lui. La bocca spalancata, gli occhi selvaggi, la zampa sollevata pronta a colpirlo, la coda spazzata dal vento. È un'opera egregia sotto ogni punto di vista, di un realismo sorprendente, e per questo ancora più terrificante. Solleva una mano a proteggersi. Non riesce a respirare. Un tremito convulso lo scuote da capo a piedi, rovescia gli occhi al soffitto.

Sente un movimento, poi una presa forte che lo afferra per i fianchi e comincia a trascinarlo via. Via da quell'orrore. Via dalla paura. Mani d'acciaio e una voce che lo chiama, lo scuote, lo avvolge di calore, affetto.

Cerca di rispondere, di reagire. La massa d'incubo si è allontanata, lo sente, lo percepisce. Lo vede dalle palpebre socchiuse, dai diversi colori delle pareti che gli ricordano il giallo-oro della cucina, il mobilio dai toni chiari.

I suoi polmoni contratti cercano disperatamente di trarre un respiro, ci riescono a stento: entra raschiando ed esce in un ansito rauco. Ricomincia a mettere a fuoco: la massa malefica di quel cavallo in ferro battuto è ancora là a campeggiare nell'atrio, ma è abbastanza distante, appena appena da essere sopportabile.

Si accorge di essere semi-seduto sul pavimento, stretto nell'abbraccio di qualcuno, che continua a chiamarlo e dondolarlo dolcemente. Qualcosa di umido gli bagna la guancia: lacrime, che non sono sue. – Alex! Alex! Ti voglio bene. Ti voglio bene. Non avere paura! Non avere paura! Je te serre fort! Ti stringo stretto stretto! Ti tengo stretto stretto!

La voce si fa sempre più forte, diventa grido. Alex sbatte gli occhi mentre vede alcuni domestici accorrere allarmati. Cerca di parlare, di rassicurare quell'angelo che gli sta avvinghiato addosso e lo avvolge come uno scudo, per proteggerlo dall'ombra a forma di quadrupede che ancora lo minaccia da lontano, ma non riesce a parlare. Ha la gola così stretta che ogni respiro è una battaglia da vincere.

Le persone intorno a lui cercano di soccorrerlo, ma Gérart non vuole scostarsi, lasciarlo andare. Soffia e grida sconvolto come una tigre con il suo cucciolo. – No! No! Alex sta male! Devo tenerlo stretto stretto! Andate via! Sortez de là! Andate via, gli fate male!

Mentre solleva una mano per raggiungere il braccio di Gérart a placarlo, Anton sbuca sulla soglia della cucina in pantofole e con i capelli arruffati. Sgrana gli occhi, che saettano tra loro e la statua del cavallo, intuendo all'istante l'accaduto; parla rapido con le persone intorno, quindi si avvicina e comincia a dialogare con Gérart in tono calmo, cercando di ammansirlo.

Alex l'osserva stordito. I suoi occhi caldi e dolci, il volto rigido di preoccupazione, la gestualità elegante e delicata. La statua sembra ancora più lontana adesso. Chiude gli occhi un attimo, per poi riaprirli quando sente la stretta del ragazzo allentarsi. Braccia morbide e sicure si sostituiscono alle sue, un evanescente profumo di agrumi e spezie, che gli è entrato nella pelle da quella notte; Anton lo sostiene con forza, sbraita ordini, parla seccato, guardandosi intorno con una luce furiosa nello sguardo.

Tra le sue braccia, Alex prova un sollievo infinito e si sente improvvisamente sfinito, stremato, senza forze. Il suo corpo è come un cencio logoro e strappato. Non riesce più a muoverlo, né a sentirlo.

Quegli occhi verdi si fermano su di lui adesso. Quella bocca gentile si apre a dire qualcosa, sembra che incoraggi... che chieda. Ma Alex non ce la fa. È a un passo dallo sbriciolarsi, impazzire. È stanco. Sconfitto. Prega solo che Anton non lo lasci, che non lo lasci proprio adesso, perché quel contatto gli è vitale. Lo alimenta. Lo tiene in vita.

Si sente abbandonare. Crollare. Una voce che torna a gridare, che incalza. – Avete chiamato il medico?! Dov'è l'ambulanza?! Quanto ci mette ad arrivare? Alex, Alex, mi senti? Togliete quella dannata statua, spicciatevi! Gérart smetti di piangere, tesoro. Francoise, vedi di lui, per favore. Alex! Alex! Mio Dio! – Poi il buio.




Come petali di Veronica persicaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora