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– Perché accidenti l'ho fatto?

Non è che un sussurro. Un alito di voce supplice che gli esce strozzato dalla gola, mentre il suo corpo trema e vibra al martellare del cuore in tachicardia.

"Calmati, calmati, Alex! Ragiona!" Macina febbrile la sua mente, che registra stordita lo scroscio della pioggia sulle vetrate. "È solo pietra, non può farti del male!"

Si impone di sollevare lo sguardo. Marmo. Nient'altro che marmo. Liscio come seta. Bianco come nuvola. Morbido, nel delineare la muscolatura; imponente, nell'evidenziare la bellezza virile di un Ercole vittorioso sull'Idra. E anche... troppo vivido, troppo realistico.

Si sforza di resistere, mentre sente di tremare senza controllo. Una goccia di sudore gli scivola sulla guancia. La maglietta bagnata gli si appiccica alla schiena. Marmo. È solo marmo, si dice. Ma quel marmo è alto tre metri, e incombe massiccio su di lui come se potesse prendere vita e schiacciarlo da un momento all'altro. Quel volto e quegli occhi sembrano guardarlo con voracità: vogliono inghiottirlo, annientarlo. Non è marmo, protesta stordito, è orrore liquido, che in un istante può divorarlo e trascinarlo via con sé. Si sta inclinando, si sta inclinando verso di lui proprio adesso.

Le pareti della sala espositiva del museo gli si stringono addosso, diventano enormi, soffocanti. Le tele dei dipinti gli si appiccicano alla carne; il colore cola e si mescola al suo sudore, entra nel sangue, lo inquina, ammorbandolo di sostanze tossiche. La pietra sembra muoversi, farsi plastica: minacciose ali di marmo gli si avvolgono addosso, malefiche, sussurrando: "muori, piccolo insetto inutile, muori".

– Dio... – Alex chiude gli occhi, respirando a fatica. Si porta una mano al volto, sentendosi sbriciolare dentro. Vorrebbe scappare via. Sottrarsi a quell'ennesimo tentativo di affrontare la sua fobia, di combattere quel suo essere anormale, ma non riesce a muoversi. Il panico gli paralizza i muscoli e gli blocca il respiro. Sente la presenza della statua anche senza guardarla; percepisce i quadri incombere alle sue spalle, pronti a inghiottirlo. È circondato, senza scampo...

– Mi scusi.

Una voce lo fa sussultare. Socchiude le palpebre e sbircia di fianco, sapendo che se aprisse gli occhi del tutto si metterebbe a piagnucolare senza ritegno.

– Sta male? Ha bisogno di aiuto?

È una voce gentile quella che sente, bassa e piena, con un vago accento straniero. Appartiene a un uomo sulla trentina vestito elegante, che lo sta guardando con aria apprensiva e occhi di una dolcezza sorprendente. – Mi scusi, – insiste, – ma ha l'aria di stare molto male. Posso fare qualcosa?

Alex sente di stare per svenire, il cuore gli batte così forte in petto da scuoterlo come se avesse un terremoto interno. – ...ori di qui.

L'uomo si sporge accigliato. – Cosa...? Cos'ha detto?

– Per piacere... – esala lui vacillando, – mi porti... fuori di qui.

L'altro esita un momento, ma non replica né chiede spiegazioni. – Certo, – dice, invece, – mi permetta di accompagnarla. – Allunga una mano, che resta a mezz'aria, in attesa.

Alex apre un poco di più gli occhi e osserva quelle dita gentili, dalla manicure perfetta, tese verso di lui; vorrebbe afferrarle, vorrebbe lasciarsi aiutare e uscire da quell'incubo, allontanarsi, fuggire a gambe levate dal museo di quel castello medioevale dove, idiota!, ha voluto infilarsi di sua stessa iniziativa, ma non riesce a muovere nemmeno un muscolo. Il suo corpo non gli appartiene più, è fagocitato dal panico. Rimane così, impotente, a osservare quell'offerta d'aiuto senza riuscire a fare altro che ansimare e sbavare come un cane, disperando che da un momento all'altro quello sconosciuto si stanchi, prendendolo per pazzo, e se ne vada.

Quegli occhi dolci però lo sorprendono. Invece di farsi diffidenti, si ammorbidiscono in una sbarazzina pennellata di luce, che sottrae al suo viso dieci anni d'età. Sposta lo sguardo alla statua, quindi torna su di lui. – Non mi dica che... – sbatte gli occhi, turbato, poi annuisce: – L'aiuterò, mi creda, ma dovrò prendermi una leggera confidenza. Mi permette di toccarla?

Alex mugola un disperato "sì" a fior di labbra. A quel segnale, l'uomo si sfila il cappotto di dosso e con un gesto rapido glielo drappeggia a mo' di cappuccio su testa e spalle. Dopo un secondo, Alex, avvolto in un'oscurità calda e morbida, sente il suo braccio circondargli i fianchi e stringerli in una morsa decisa. – Mi perdoni, – dice ancora, – cerchi di resistere. Adesso la porto fuori.

Non appena l'uomo comincia a trascinarlo via, Alex sente le gambe cedergli, ma non riesce a cadere perché quella presa è puro acciaio: viene sostenuto senza problemi, mentre procedono a passo spedito, sala dopo sala, verso l'uscita. La stoffa del cappotto, che gli sfiora il viso, ha un profumo particolare, sembra emanare un miscuglio olfattivo di agrumi e spezie. Alex comincia a sentirsi meglio, e poco dopo riesce a sostenersi da solo sulle gambe.

– Non riapra ancora gli occhi, non ancora, – lo allerta l'uomo, notando il suo tentativo di scostare il cappotto dal viso. Alex ubbidisce docile e si lascia condurre all'aperto.

– Ecco, – fa quella voce gentile. Il cappotto viene tolto e Alex può finalmente guardare in faccia il suo salvatore. Lentiggini appena spruzzate sulla linea forte del naso, lineamenti marcati ma eleganti, ciglia bionde e lunghe a tratteggiare occhi verdi come prati, parzialmente ombreggiati da ciocche di caldo fieno bruciato dal sole. Arrossisce rendendosi conto dell'accaduto. – Mi scusi, mi scusi veramente.

– Va meglio, adesso? – chiede lui.

Alex annuisce, non sapendo che dire. Si ritrovano sotto la tettoia dell'ingresso del castello, la pioggia è scemata in uno sgocciolio stanco e sfiduciato, lasciando le strade punteggiate da specchi di pozzanghere.

L'uomo inclina la testa squadrandolo con interesse. – La vedo ancora molto pallido, sono preoccupato. Secondo me, avrebbe bisogno di sedersi. Le dispiace se le offro un caffè? C'è un bar qui vicino.

– L'ho già disturbata abbastanza... – esita Alex mentre si passa una mano dietro la nuca, dove avverte i capelli bagnati. Il vento serale si alza e lui ha un brivido involontario, che cerca subito di nascondere sollevando le spalle e ficcandosi le mani in tasca. – Sto meglio, adesso. Grazie.

– Dov'è la sua giacca? L'ha lasciata dentro al museo? – fa l'uomo nel notare la sua maglietta inzuppata di sudore.

Alex scuote la testa per schiarirsela e ondeggia un poco, colto da un capogiro. – Sì, forse... beh... non ricordo...

Il cappotto dello sconosciuto torna a drappeggiargli le spalle. – Lo indossi! Fa troppo freddo qua fuori. Aspetti un attimo, vado a chiedere ai custodi di tenergliela da parte in portineria, potrà recuperarla domani.

– Ma...

L'uomo si allontana, e dopo una manciata di minuti ritorna da lui sorridendo. – Andiamo al caldo, adesso, – fa conducendolo senza tante grazie verso l'entrata del bar. – A proposito, con chi ho il piacere...?

– Mi scusi... mi chiamo Alessandro Spada.

– Io sono Anton, Anton Lacroix. Ma mi chiami pure Antonio, – dice indicandogli un tavolino appartato, – sono per metà italiano.

Alex sgrana gli occhi. – Lacroix...? Il famoso scultore...?

Anton emette un debole, imbarazzato, sorriso. E, quasi a volersi scusare, conferma: – Proprio lui. 


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