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Alex scende di corsa dal taxi e si precipita all'ingresso. – Dov'è il signor Lacroix? Antonio, – chiede a uno dei domestici.

– Nella dependance, signor Spada, – gli rispondono, – era con suo fratello fino a un secondo fa.

Alex si precipita fuori, supera la piscina, il campo giochi e si addentra nel parco, guidato da radi faretti a terra e dalla tenue luce proveniente da un fabbricato che si intravvede in lontananza tra gli alberi; poco prima di arrivare alla dependance, incrocia Quentin di rientro verso casa.

Questi lo fissa sorpreso.

– Dov'è Antonio? – domanda con forza, ansimando.

– Non dirmi che... hai proprio deciso di fare lo stupido a quanto pare. – Fa un paio di passi e si china a sospirargli all'orecchio in tono dolce. – Anton non sta bene, ha una crisi diabetica. Stavo giusto andando a chiamare i soccorsi, ma non ho il cellulare con me, puoi prestarmi il tuo?

– Certo, eccolo.

Quentin sorride e se lo ficca in tasca. – Vado a prendere il suo farmaco salvavita. Tu aspetta qui, ok?

– Vado da lui.

– Se ci riesci...

Alex si acciglia al suo incedere calmo e composto, ma è troppo sconvolto per rifletterci sopra. Si affaccia sulla sala e assiste al suo incubo peggiore. La dependance è un rettangolo di quindici metri con pareti finestrate. Lungo i due lati, file di quadri e statue campeggiano minacciosi come guardie armate in parata. Al centro del locale, a una decina di metri dall'ingresso, illuminato da una tenue lampada a soffitto, un corpo steso a terra.

– Anton!

Non può entrare. Non può. Già in quella posizione sente gola e stomaco stringersi in una morsa crudele. Si guarda attorno. Chiama ancora ad alta voce. Ma Anton sembra incosciente. Conta fino a trenta, a sessanta. E di nuovo. Guarda l'orologio. Si sporge in fuori: non vede arrivare nessuno, nemmeno i domestici, che a quest'ora avrebbero dovuto essere stati allertati. Decide di agire. Ricorda che, tempo prima, Anton gli aveva detto dove aveva messo la siringa di glucagone preriempita e si precipita nel suo studio a prenderla. Nel tornare indietro, incrocia Gérart. – Gé, dov'è tuo padre? Ha chiamato i soccorsi?

– Eh? L'ho visto venire in cucina a chiedere un caffè e sono corso a nascondermi. – Gli mostra la fetta di dolce che teneva dietro la schiena. – Se scopre che ho preso la torta al cioccolato, sono gros ennuis, guai seri!

Alex ha un brivido freddo e trattiene un'imprecazione. Ecco spiegato il motivo per cui gli ha chiesto il telefono, ecco perché ha trovato la scatolina del farmaco al suo posto. "Un ritardo nei soccorsi, non prendevo la linea, sono andato a cercare aiuto, non sapevo dove aveva messo il farmaco, non pensavo fosse così grave," sente già quelle probabili frasi nella testa.

Non è un genio della medicina, ma sa perfettamente che una crisi diabetica con perdita di coscienza va trattata subito o può essere fatale. "Conta sul fatto che io non possa soccorrerlo, – pensa febbrile. – Conta sul fatto che le stanze di Anton siano quelle più lontane dall'edificio centrale. È sera e la servitù ha finito i suoi giri. Nessuno verrebbe qui a quest'ora. Ha approfittato del momento per liberarsi di lui. È diabolico." Benedice Gérart e la sua insaziabile fame. – Hai il cellulare con te?

– No, l'ho lasciato in chambre, in camera.

Alex cerca di dare alla sua voce il tono più calmo e normale possibile. – Allora, ascolta, ho un compito da darti: chiama la mamma, dille di mandare subito un'ambulanza alla villa. Hai capito? È molto importante. Zio Nino sta male, ok? Posso fidarmi?

– Sì, Alex. Ho capito. Lo faccio tout de suite? Subito?

– Subito, sì. Come un lancio da quarterback, ok? Preciso e veloce.

– Preciso e veloce. Preciso e veloce. Preciso e vel... – Gérart si allontana rapido ripetendo quella cantilena per non dimenticare ciò che deve fare.

Alex torna alla dependance correndo come un pazzo. Si chiede storditamente da quanto Anton sia svenuto e se sia ancora in tempo per soccorrerlo. Prende tre respiri profondi, riempiendo i polmoni fino quasi a scoppiare, quindi entra come una freccia nella stanza a occhi socchiusi. Dopo pochi passi si sente rallentare, il corpo intrappolato e circondato da una ragnatela di puro orrore, fatta di pietra, marmo, colori; occhi che fissano, mani che bramano, superfici che schiacciano.

Non riesce più a respirare, ma già lo sapeva. Per questo prima ha ossigenato il corpo per bene. Calcola di avere un paio di minuti di gioco, prima di cominciare a sentirsi male davvero. Avanza rantolando, crolla su un ginocchio, si rialza, stringe la scatolina del farmaco tra le mani, e fa altri passi. La testa gli pulsa e fa male, si schiaccia alla pressione di quelle "presenze" malefiche. Tutto è annullato, tranne il dolore, l'angoscia che prova. Sente di stare impazzendo. Ma per quel corpo, ora immobile, per quegli occhi dolci, che sanno di risate e prati infiniti, è disposto anche a perdere se stesso per sempre.

Cade di nuovo, le gambe ormai inutili. Chiude gli occhi e avanza strisciando alla cieca, finché non tocca il corpo di Anton. Lo chiama, disperato. Sente che è appena tiepido, quasi freddo. Ansima. Deve riaprire gli occhi, deve riaprirli per praticargli l'iniezione. "Subito, subito!" esclama il suo cervello. Quando solleva le palpebre, nota con la coda dell'occhio la sagoma di un satiro, grande quanto un armadio, a pochi centimetri da lui. Annaspa e cade quasi di lato, ma si costringe a riprendersi e aprire quella dannata scatolina.

Ci sono delle istruzioni dentro. Alex sbatte gli occhi appannati e impreca contro se stesso e la sfiga di Antonio nell'essersi innamorato di uno come lui.

"Avanti! Avanti!" pensa. "Uno: aspirare il solvente".

Con mani che continuano a tremare estrae il farmaco dalla boccetta, infilando l'ago della siringa.

"Due: rivolgere verso l'alto, picchiettare e fare uscire le bolle."

Si piega in avanti, rantolando a corto d'aria, e rischia quasi di fare cadere tutto a terra. Inala a forza le due once di ossigeno che i suoi polmoni contratti riescono a regalargli e prosegue.

"Iniettare intramuscolo. Ok, capito!" Senza tante cerimonie infilza la coscia di Anton e spinge lo stantuffo fino in fondo.

– A... Antonio – sussurra. Gli accarezza la guancia, gli scosta i capelli. – An... tonio – esala in un ansito, poi la luce comincia a calare, calma, compatta, un'oscurità densa, che lo avviluppa e lo trascina via, nel silenzio più profondo.


Come petali di Veronica persicaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora