Prologo

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Maggy
I genitori.
Sono loro che dovrebbero insegnarci come vivere, come crescere, come trovare un posto nostro, come essere noi stessi..sono loro che dovrebbero insegnarci la vita, sono loro che dovrebbero
aiutarci quando le cose non vanno per il verso giusto.
Ebbene, i miei genitori mi hanno abbandonata quando avevo solo quattro anni. Precisamente non so perché, e non voglio nemmeno saperlo.
Mi hanno lasciato davanti ad un orfanotrofio nei pressi di Los Angeles; mi hanno lasciato lì col mio peluche di Spongebob e li ho visti allontanarsi molto velocemente. Ero lì, con i capelli mori raccolti in una coda sfatta, la mia salopette preferita e le scarpe bianche ormai ingrigite per tutte le volte che ho giocato con esse per il giardino.
Guardavo la loro macchina andare via e piangevo disperata, piangevo e in quei minuti di disperazione gridavo. Gridavo perché sapevo che non sarebbero più tornati, gridavo perché sapevo che non li avrei più rivisti, gridavo perché le persone a cui volevo più bene se ne erano andati. E non li avrei rivisti. Più.
Vi immaginate una bambina di soli quattro anni da sola davanti la porta di un orfanotrofio con una piccola valigia vicino a lei? Bene, quella bambino io.
Maggy White.
Da allora sono passati 18 anni e le cose sono diverse. Non vi nego che i primi giorni, lì dentro, non sono stati facili. Non mangiavo, non dormivo. Piangevo e basta. Guardandomi attorno, nella piccola mensa, ero rimasta sconvolta dalla quantità di bambini che erano nella stessa mia condizione. Genitori mancati o genitori codardi. Ed ero altrettanto scioccata dalla felicità che trapelava dai loro piccoli visi.
L'orfanotrofio era gestito da suore, che devo dire mi sono state sempre vicine. Quando non riuscivo a dormire, suora Joyce mi leggeva sempre un storia.
Si può dire che fosse la mia suora preferita. Mi raccontava di storie fantastiche, di principi, di draghi, di sirene..
Quando le lacrime ormai erano finite, quando ormai la voglia di piangere era finita, ho iniziato a giocare con altri bambini, ho iniziato ad essere una bambina di quattro anni il cui solo pensiero dovrebbe essere giocare e non pensare al perché i genitori l'hanno abbandonata.
Dopo due anni sono stata adottata da due sposi che non potevano avere figli.
Mi ricordo ancora quel giorno.

Dalla finestra della mia stanza avevo visto una macchina nera parcheggiare davanti l'ingresso; da essa avevo visto scendere una donna giovane, una donna con i capelli mori corti e al suo fianco un uomo impostato. Un uomo in giacca e cravatta, con degli occhiali sul naso.
Scesi le scale velocemente e ho visto che quelle due persone parlavano con suora Joyce.
<Vorremmo vederla, se non le dispiace>, avevo origliato nascondendomi dietro la grande porta dello studio di Joyce.
<Seguitemi, è in camera sua al momento>, rispose la suora.
Chi dovevano vedere?
Se suora Joyce mi avesse trovato lì poi mi avrebbe fatto una bella ramanzina. Diceva che ero troppo iperattiva, che non riuscivo a stare mai ferma e che a volte convincevo gli altri bambini a fare cose assurde.
Mi spostai dalla porta e mi nascosi dietro il porta ombrelli lì vicino.
Vidi uscire tutti e tre e salire le scale.
Quando ormai ero sicura che non potevamo vedermi ho iniziato a seguirli, andavano verso la mia cameretta.
<Non c'è>, ho sentito dire in tono di rimprovero da suora Joyce.
Perché erano entrati nella mia camera?
<È una bambina molto vivace, è diversa dagli altri>, spiega la suora a quelle persone.
Mi avvicinai alla porta.
L'uomo si guardava intorno e si sedette sul mio letto, mentre la donna guardava i quaderni sopra la piccola scrivania. Mi piaceva colorare e quei quaderni erano pieni di qualsiasi disegno possibile e immaginabile.
Poi la vidi avvicinarsi al mio letto dove tenevo sempre il mio peluche.
Lo prese tra le mani e lo accarezzava.
<No, no, il mio peluche no>, urlai entrando correndo nella stanza.
Non potrei mai dimenticare la loro espressione quando entrai in camera in quel modo.
<Dammi il mio peluche>, iniziai a piagnucolare alzando le braccia verso l'alto verso la donna.
<Eccola, lei è la piccola Maggy>, disse la suora sorridendo.
<Scusami piccola, non volevo farti arrabbiare>, mi disse la donna abbassandosi alla mia altezza e restituendomi Spongebob.
Guardai l'uomo che continuava a guardarmi e a sorridere dolcemente.
<Io mi chiamo Lilian>, continuò la donna porgendomi una mano.
Aveva un anello e qualche bracciale legato ad esso; la afferrai.
<Io mi chiamo Maggy e ho sei anni>, risposi tenendo stretto Spongebob al mio petto.
<Io invece mi chiamo Edward e non ho sei anni>, parlò l'uomo facendomi una linguaccia.
<Si, hai la barba. Non puoi avere sei anni>, replicai ridendo.
<Ti dispiace se ti lascio un momento con Lilian ed Edward?>, mi chiese la suora.
Scossi la testa.
<Allora Maggy..vorresti venire a vivere con noi? Vorremmo che tu diventassi nostra figlia..>, mi spiegò la donna con gli occhi lucidi.
Loro figlia.
Ma io ero già la figlia di qualcuno..o forse non più. Ero la figlia di due persone che non mi hanno voluto..sarei stata la figlia di due persone che mi volevano. Lilian ed Edward White.

Adesso ho 22 anni, appena laureata in infermieristica e con la voglia di fare la specializzazione in tutt'altro posto.
<Maggy>, mi chiama mia mamma dal salotto.
<Sei sicura di voler andare con tuo padre?>, continua lei raggiungendomi in cucina.
<Mamma, lo sai che qui in ospedale non mi trovo benissimo e poi voglio fare qualcosa di diverso>, le spiego mentre controllo che nel mio zaino ci sia tutto.
<Lo so tesoro, ma mi mancherai tanto>, ammette lei mentre si sfila dalle dita un anello che in tutti questi anni non ha mai tolto.
<Prendilo tu, è tuo adesso>, dice con gli occhi lucidi.
<Ma mamma..>, sussurro.
Mi ha raccontato che quell'anello le era stato regalato da sua mamma quando lei aveva 18 anni. Mi raccontava spesso della nonna che purtroppo non ho mai conosciuto e mi raccontava spesso di come la faceva arrabbiare.
<Prendilo, voglio che tu abbia qualcosa di mio in quel posto>, continua lei.
Non le piace molto il fatto che io segua papà, ed è normale. Papà è un colonnello militare in Afghanistan. Controlla una base dove addestra militati e controlla le zone limitrofe.
Lui all'inizio non voleva che io andassi con lui, ma dopo le mie continue insistenze ha dovuto cedere.
Già so che mi tratterà come sua figlia e non come un'infermiera pronta ad aiutare e a dare il massimo.
Come tutti ho fatto domanda e ho superato il test, niente favoritismi.
Prendo l'anello dalle mani di mia mamma e lo indosso. È davvero bellissimo, semplice, è d'oro con un piccolo fiore al centro di colore celeste.
<Ti voglio bene mamma>, affermo abbracciandola.
<Ti voglio bene piccola mia. Mi raccomando chiamami sempre quando sei laggiù e torna quando ti è possibile>, mi avverte.
Da piccola quando vedevo papà andare via, da casa mancava per qualche mese. Facevamo un sacco di chiamate e videochiamate, ed era come se fosse qui con me.
<Hai preparato tutto per domani?>, domanda mio padre entrando in cucina.
<Si, tutto, sono pronta>, affermo decisa chiudendo lo zaino.
<Non perderla di vista nemmeno un secondo, siamo intesi Ed?>, lo avverte mia mamma con sguardo deciso.
<È nostra figlia Lili, non permetterei mai che le succedesse qualcosa>, risponde lui dandole un bacio. È incredibile come dopo tanto tempo, come dopo tante difficoltà, il loro amore sembra più forte di 18 anni fa.
<Ti conviene andare a dormire presto, domani all'alba abbiamo l'areo>, continua lui dandomi una bacio sulla fronte. Protezione.
Annuisco e vado in camera mia.
Sarà l'ultima notte in questa camera.
Le pareti sono di un beige molto chiaro, sulla parete dove è poggiato il grande letto ho appeso delle foto di me, della mia famiglia e della mia migliore amica, Cassy che si è appena laureata in letteratura moderna. Una vera noia per me.
Prendo qualche foto da portare con me e le inserisco nel quaderno dei disegni. Amo ancora imbrattarmi le mani con del colore.
La grande finestra che porta sul giardino è semiaperta e l'aria inizia a farsi più fresca. La chiudo e guardo la scrivania colma di libri di medicina.
Mi mancherà tutto questo, mi mancherà svegliarmi con la luce che mi scalda il viso, e mi mancherà vedere quel piccolo gattino che a volte veniva a farmi compagnia quando avevo sei anni. Veniva spesso dietro la vetrata della finestra e stava lì finché non andavo con lui a giocare. A volte viene ancora a trovarmi.
Mi sdraio sul letto e leggo ancora notizie su quella base che da domani in poi sarà la mia "casa" o almeno credo. Sembra che sia la più grande base americana lì in Afghanistan e anche la più importante. Non ci sono descrizioni dell'interno e nemmeno dei militari che vi lavorano, penso che sia una questione di privacy e anche di segretezza. A volte papà mi raccontava di missioni fatte e del fatto che nessuno dovesse sapere i nomi dei suoi uomini. Nessuno al di fuori della base.
Mi ha detto che la vita lì è difficile, di donne, uomini e bambini uccisi senza un motivo, senza una spiegazione. Di bambini a cui veniva strappato via tutto.
Mi ha più volte avvertito di non fare sciocchezze, ma di fare solo il mio lavoro. Sono un'infermiera. Aiuterò al massimo delle mie capacità.

04:20
Suona la sveglia.
Mi alzo e mi preparo per la mia nuova avventura più determinata che mai.

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