-25- lo sapevo, allora perché?

576 83 6
                                    

Autunno inoltrato, le giornate sempre più brevi, le foglie che da verdi mutavano il proprio colore assumendone uno più triste simile al marrone. L'aria sempre più fredda, le sere con la felpa e il the caldo a scaldare le dita infreddolite.

Daichi dubitava di potersi mai abituare a quella specie di prologo dell'inverno. Tirò giù gli scatoloni con gli indumenti pesanti e lì, in cima alle felpe ben piegate, vi trovò i guanti verde bottiglia. Quei guanti che gli aveva prestato Sugawara la prima volta che si erano incontrati. Li prese, si accertò della loro morbidezza, se li portò vicino al naso e li odorò, sapevano di vaniglia, in qualche modo, durante i mesi di inutilizzo, avevano mantenuto la fragranza del grigio.

Gli tremò il labbro, se lo dovette mordere per fermarlo. Il nodo alla gola era ormai una consuetudine quando la mente gli portava a galla la memoria di quel ragazzo spensierato.

Strinse con forza i guanti e li lanciò sul letto. Quel colore così particolare stagliava sopra alle coperte giallo limone.

-dannazione, lo sapevo. Lo sapevo, cazzo-

Quello scatolone conteneva più ricordi di quanto avrebbe voluto. Tirò fuori la coperta con la fantasia infantile che ritraeva i pinguini e se la strinse contro il petto. Quella, a differenza dei guanti, aveva perso il profumo che l'aveva impregnata nel periodo durante il quale l'aveva usata il grigio.

-sapevo che mi avresti fatto soffrire, allora perché? Perché mi sono avvicinato a te? Perché affezionarmi a qualcuno che presto sarebbe diventato irraggiungibile?-

Il moro si ritrovò con le ginocchia sul parquet e il viso sprofondato nel tessuto morbido, simile a pile, della coperta. Le dita contratte a trattenere la coperta, le nocche si decoloravano e le unghie cercavano di lasciare un segno sui palmi protetti dal tessuto morbido. Il dolore si faceva via via più forte, la sofferenza prendeva il posto dell'aria nei polmoni e la consapevolezza che probabilmente la sua vita non sarebbe più stata la stessa scorreva nelle vene.

"il solo starti accanto gli faceva bene, ma non te ne sei accorto"

-perché Yaku mi ha detto quelle parole? Dovevo comportarmi da egoista, avrei dovuto rinunciare. Lo sapevo che avrei sofferto, allora perché?-

Inspirò inarcando la schiena e buttò fuori l'aria. Il suo corpo tremò, le ginocchia cedettero lasciandolo accasciare ancora di più sul pavimento e la mano chiusa a pugno colpì forte il parquet lucido.

-perché stare con Sugawara faceva bene anche a me, soprattutto a me-

Si rimise in piedi, si ricompose, piegò di nuovo la coperta riponendola nell'armadio, afferrò i guanti e se li mise in tasca, non era ancora stagione da sciarpa, guanti e cappello, ma al primo sentore di infreddolimento li avrebbe indossati.

Uscì di casa, passò sotto l'arco naturale di ciliegi, a terra c'era un tappeto di foglie arancioni e marroni, ma lui rimaneva con il viso sollevato, guardava in alto cercando di comprendere perché il grigio non si guardasse mai i piedi quando camminava per strada.

Arrivò all'ospedale, percorse il corridoio contornato da porte, alcune aperte sui dolori altrui altre chiuse a nascondere le vite private dei pazienti e delle famiglie afflitte. Giunse davanti a una porta in particolare, era aperta e la visuale da lì era una sola, quella porta aperta mostrava lui, Sugawara Koushi.

Vederlo seduto in quel letto così anonimo dell'ospedale gli faceva quasi dimenticare che persona fosse stata prima che la malattia avesse fatto il proprio ingresso, o meglio che la malattia avesse preso possesso del ragazzo trasformandolo in un involucro privo di ciò che lo caratterizzava, una scatola vuota.

Lo vedeva con lo sguardo spaesato, perso oltre la finestra, chissà cosa pensava, chissà cosa la sua mente si divertiva a fargli immaginare. Non lo sopportava, vederlo in quel modo, così anonimo e solo. Che lui stesse soffrendo non poteva avere dubbi, tutti soffrirebbero se la propria vita venisse portata via ancora prima della morte stessa.

Lui lo osservava senza fare un altro passo oltre quella dannata porta, perché avrebbe voluto dire ricominciare da capo ciò che aveva fatto le volte precedenti, presentarsi, raccontare chi fosse, come si fossero conosciuti e quanto andassero d'accordo tra una discussione e l'altra.

Le mani del grigio si aggrappavano al lenzuolo candido, come se stesse cercando di afferrare un ricordo che piano stava svanendo dalla mente. Quella mano l'avrebbe dovuta prendere lui, stringere e fargli sentire che non era solo, ma non poteva, non poteva perché quel ragazzo non l'avrebbe riconosciuto e quindi, nonostante la mano stretta, si sarebbe sentito solo comunque.

Scosse la testa, le lacrime inesorabili stavano cercando di farsi strada, ma lui non voleva, non voleva e non doveva piangere perché di lì a poco avrebbe trovato il coraggio di varcare la porta ed entrare in quella dannata stanza d'ospedale.

"o sei un folle a cui piace il freddo oppure hai dimenticato la giacca, ma stai fuggendo dai tuoi amici e questo ti impedisce di tornare dentro a prenderla"

La prima frase che gli aveva rivolto lo aveva lasciato interdetto, si era chiesto come potesse un completo sconosciuto rivolgersi così a lui. Non lo aveva compreso, aveva accettato i guanti ed era tornato a casa convinto che non l'avrebbe più rivisto, ma per sua fortuna, o sfortuna questo doveva ancora deciderlo, l'aveva rincontrato il giorno dopo in quel posto triste.

Lui aveva sentito quasi subito l'istinto di avvicinarsi a quel ragazzo, visibilmente fragile, ma con un'energia incredibile. Lui lo aveva voluto conoscere, ma forse era stato un errore, altrimenti non si spiegherebbe perché stesse soffrendo in quel modo nel vederlo seduto su quel letto anonimo.

Si coprì gli occhi con una mano, voleva trovare un modo per farlo sembrare meno ingiusto quel loro incontro, ma non c'era. In quel momento, non riusciva a concepire una ragione per la quale il loro incontro fosse avvenuto, se non per farlo soffrire.

Sentì un sospiro provenire dall'interno della stanza, alzò il viso e guardò il ragazzo che aveva abbassato lo sguardo, non stava più osservando la finestra o ciò che c'era fuori di quella.

Sentiva il bisogno di abbracciarlo, di stringerlo, di consolarlo, ma sapeva anche che, una volta che il grigio non lo avesse riconosciuto, lui sarebbe inesorabilmente sprofondato nell'oblio, ancora una volta.

Si era chiesto più volte perché fosse capitato proprio a Sugawara, perché al grigio e non a lui. Cosa c'era di diverso tra loro due, cosa determinava lui degno di vivere una vita sana e il grigio no, cosa o chi decideva la sorte e in base a quale legge. Daichi non sopportava quella vista, quel ragazzo pallido, con i tratti delicati e i capelli argentei, seduto senza un passato al quale aggrapparsi negli ultimi momenti della sua vita.

Come poteva morire senza avere l'immagine del sorriso di una persona amata nella mente? Era come morire solo, ma anche peggio, era come morire solo e con la convinzione di essere rimasto solo per tutta la vita.

Il moro superò la soglia della porta e corse dal grigio, lo strinse in un abbraccio, affondò il viso nell'incavo tra il collo e la spalla e ne inspirò il profumo, quel profumo che ormai era solo un sentore perché stava venendo sostituito dall'odore di disinfettante. Lo strinse chiudendo gli occhi e cercando di trattenere le lacrime, sapeva che non appena quell'abbraccio fosse terminato lui si sarebbe dovuto presentare al ragazzo seduto nel letto d'ospedale. 

Before you goDove le storie prendono vita. Scoprilo ora