Capitolo 10

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I raggi solari mi scaldano la pelle e quando socchiudo gli occhi la luce che penetra attraverso le ciglia mi dà estremamente fastidio.
In pochi secondi gli avvenimenti della notte precedente mi investono e rivivo le emozioni come un turbinio di colori che mi inebria.
Poggio un braccio sugli occhi e non posso fare a meno di sorridere.
Quella mattina mi concedo un po' di riposo in più, restando a letto fino all'ora di pranzo. Mi faccio un bagno e lascio i cappelli bagnati, avvolti in un turbante. Con addosso l'asciugamano mi guardo allo specchio e vedo dei segni violacei sul collo, dalla parte sinistra se ne distinguono 4 consecutivi mentre dalla parte destra uno solo, ma molto più rimarcato; appena capisco che sono i segni delle sue dita arrossisco ma sorrido, sfiorandomi piano il collo. Invece sulle clavicole fino all'ombelico ma soprattutto sul collo ci sono i segni di succhiotti ormai sbiaditi. Con le dita ripercorro sul mio corpo la scia di baci che lui ha lasciato e mi sento come al sicuro. Mi vesto e vado nella sala da pranzo, per vedere se posso aiutare Zelda a cucinare.
Arrivo tardi perché stanno già mangiando, a quel punto Elena mi dice che "il signorino" non è uscito dalla sua camera oggi. Non lo vedo per tutto il pomeriggio e sto sola in biblioteca a disegnare il suo volto, che ormai è impresso a fuoco nella mia memoria.
Anche a cena non si vede e, dopo aver finito si sparecchiare con Elena e Zelda, mi rifugio in camera mia, leggendo avvolta nelle coperte.
In quel momento una malinconia sorda mia assale, e solo dopo la identifico come un attacco di panico. Non ne avevo dalla morte di mio fratello, eppure quella sensazione di oppressione è così familiare...
Un peso mi schiaccia la cassa toracica
e diventa sempre più difficile respirare, i pensieri si rincorrono, affollandosi nella mia mente in un groviglio letale. Incomincio a sudare, ma non riesco a fare altro che dondolare con le braccia avvolte intorno alle ginocchia. Sono completamente in balia degli eventi e la lontananza di casa mi ha fatto più male di quanto pensassi. Passano interminabili minuti e cerco di fare respiri profondi concentrandomi a non precipitare di nuovo in quel baratro che conosco fin troppo bene. Ma perché improvvisamente, dopo tre anni, si ripresentano questi sintomi? Non può essere solo la mancanza di casa ma anche se mi sforzo di cercare in me la risposta, riaffiorano solo vecchi ricordi. Passa un ora, poi due.
Finalmente il cuore rallenta, e mi sembra pian piano di ritornare a respirare dopo una lunga apnea. Tremo senza riuscire a fermarmi, ho freddo ma sono zuppa di sudore. Distendo braccia e gambe e mi alzo lentamente, muovendo le dita dei piedi contro il tappeto morbido. Apro leggermente la finestra perché l'aria mi sembra asfissiante. Mi muovo lentamente verso il bagno e mi lavo la faccia. Dato che ho un cattivo odore, cambio il pigiama e mi faccio l'ennesimo bagno, prima o poi mi consumerò la pelle ma stare immersa nell'acqua calda è l'unico modo, a volte, per far rallentare i pensieri e aver il coraggio di fare scendere quelle lacrime troppo trattenute. Sto dentro l'acqua per ore. Fissando semplicemente fuori. Come posso essere distrutta dentro anche in un ambiente così bello e sano, con delle persone che sembrano tenere a me?
Forse non troverò mai il posto adatto a me, forse ormai sono troppo rotta per essere aggiustata. Forse mi devo abituare a questi terribili attacchi di panico, a questa paura che mi segue ovunque. Forse le ferite che sembravano guarite sanguinano sotto i miei occhi senza che io possa fare nulla.

La notte è stata insonne e frustrante. Non riuscivo a trattenere nella mia mente un pensiero abbastanza a lungo perché potesse prendere pienamente forma. Avevo gli occhi aperti nel buio più totale, ma mi sembrava di essere cieca. Avevo pianto in silenzio senza sapere il perché. L'alba avanza timida e tinge il cielo di colori dorati. Appena c'è abbastanza luce nella stanza in modo che non serva accendere la lampada della scrivania, mi metto a disegnare.
Ogni volto, paesaggio, animale o cosa che provo a riprodurre viene male, come se fossi tornata indietro di anni a livello di esperienza. Strappo i fogli, li appallottolo e li getto furiosamente contro il pavimento lanciando un urlo di frustrazione, mi alzo di scatto e la gamba non mi regge, così vado lunga distesa per terra. Anche se arrabbiata, non sono affatto stupita della cosa: se non mi sento bene psicologicamente non riesco a disegnare, è così da quando ne ho memoria. In qualche modo arriva finalmente l'ora di colazione e ho decisamente bisogno di parlare in qualcuno. Vado da Zelda ed Elena e mi siedo a tavola con loro. Non mangio niente ma mi diverto a chiacchierare del più e del meno. Dopo aiuto Elena a spolverare le mensole, giusto per tenere la mente impegnata. A pranzo non si vede Aaron e Zelda è preoccupata perché i vassoi di cibo lasciato fuori dalla sua porta sono rimasti tali.
Dopo pranzo mi rifugio in biblioteca e riprendo il libro che mi appassiona tanto. Preferisco stare in una stanza di passaggio piuttosto che in camera mia, cosi se mi dovesse prendere un altro attacco di panico, potrei chiedere aiuto a Zelda o Elena.

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