♥ 24 - Revelation ♥

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Giacemmo sfiniti, adagiati l'uno sopra l'altra, con i palmi rivolti al soffitto, come a voler ammirare un cielo stellato utopico. Il legno sembrava riscaldare i nostri corpi, in un torpore idilliaco, capace di colmare la mente di desideri nascosti. Mi voltai, scorgendo il profilo delicato di Manuel, immerso nei suoi pensieri. Il suo sguardo perso mi colpiva dritto al cuore. Pensai che fosse soltanto stanco: fare l'amore con così intensa passione ti svuota sempre un poco, per riempirti di energia positiva e adrenalina pura.

Le sue braccia forti si chiusero attorno al mio esile corpicino: non sarei stata in grado di muovere un passo dietro l'altro in completa autonomia. Necessitavo di un aiuto e lui lo capì, come sempre. Mi aggrappai dolcemente al suo collo perfetto, gustandomi la pace che quel gesto era in grado di infondermi. Il locale sembrava una rimessa per automobili da rottamare: scuro, putrido e dall'odore nauseante. Notai che il pavimento era impregnato di liquidi e pezzi di cibo ridotti a poltiglia. Mi rammaricai per i poveretti che avrebbero dovuto ripulire quell'ambiente, dove pareva che al posto di una festa ci fosse stato un letamaio.

Il sesso con Manuel era stato talmente incandescente che non avrei saputo definirlo con altre parole. Ogni volta ero totalmente certa di volermi staccare da lui, di voler recidere il cordone che ci univa. Ma la cruda verità è che non avevo la lucidità necessaria per farlo. Mi strinse forte per tutto il tragitto, facendo attenzione a non far precipitare entrambi a terra a causa di quel disordine. Raggiungemmo la sua macchina e, con estremo sollievo, mi posizionò sul sedile del passeggero, allacciando in modo protettivo, attorno al mio busto, la cintura di sicurezza.

Percepivo il mondo intorno a me in lontananza, come se qualcuno mi avesse inserito in una specie di bolla astrale, dove tutto è immaginario. Non mi accorsi neppure quando inserì la marcia per partire. Il mio pensiero fisso, l'unico che la mia testa voleva formulare, era uno soltanto e stava lottando per emergere. L'impulsività era la mia più grande croce, così feci qualcosa che non avrei mai dovuto fare. L'alcool è il peggior nemico della verità.

«Manuel. Io... Credo di provare qualcosa per te», mossi le labbra in modo aggraziato, come a voler carezzare ogni sillaba, per rendergli meno amara la pillola che stava per digerire.

Manuel strabuzzò gli occhi e sterzò di getto, facendoci finire al di sopra di una stradina sterrata. Fortunatamente, la notte aveva reso il cammino vuoto, altrimenti ci saremmo sicuramente schiantati contro altri viaggiatori malcapitati. Guardando sulla destra riuscii a scorgere la mia villetta: almeno sarei potuta scappare velocemente in caso di una risposta troppo dolorosa.

Lo scrutai, sforzandomi di mantenere la calma, conficcandomi le unghie nella carne che fuoriusciva candida dal vestito.

«Ginevra. Tu ogni volta pensi di provare qualcosa per qualcuno, invece ci vai a letto per un po' e poi lo scarichi. Non confondere le cose», scandì piano le sue parole, come una ninna nanna.

Forse si stava concentrando per trovare il modo migliore per non ferirmi.

«Che diavolo significa "non confondere le cose"? Non sono deficiente. So quello che provo.»

Avrei voluto tirargli uno schiaffo. O meglio, prendere a pugni me stessa. Come poteva parlarmi così? Ma soprattutto, perché diamine avevo aperto bocca per rivelargli qualcosa che sarebbe stato inutile dire?

«Certo. Tu pensi di provarlo. Ma non è così. Non voglio rovinare la nostra amicizia. Quello che abbiamo è unico.»

La sua voce tradiva emozioni contrapposte, che sul momento non riuscii a cogliere. Sembrava essere in preda al panico, sebbene si sforzasse di non darlo a vedere.

«No. Non ce la faccio a continuare così. Mi fai soffrire.»

Mi slacciai la cintura e cercai di aprire la portiera, senza alcun successo. Mi toccai nervosamente i lobi delle orecchie, tirandoli. Il bruciore si irradiava, dandomi una parvenza di serenità.

Lui chiuse gli occhi e percepii che stava soffrendo. Teneva i pugni ben stretti sul volante, come a voler impiegare la sua forza fisica per non dover essere costretto a scavarsi dentro. Per ricacciare indietro quella sensazione che non riusciva a esternare.

«Non voglio farti del male. Tu per me sei importante. Non ti toccherò più, se è quello che vuoi, non lo farò più.»

Lo fissai, senza emettere un fiato. Voleva realmente che non ci sfiorassimo mai più? Avevo un estremo e disperato bisogno di lui, della sua pelle, del suo odore. Le lacrime lottavano silenziose. Avrei voluto potermi lasciare andare al vuoto oscuro, facendole sgorgare fino a rigarmi le guance, ormai prive di quel loro tocco roseo naturale. Stavo per piangere e non potevo farlo di fronte a lui. Non volevo.

Lui esitò per un istante, prima di far scorrere le sue dita calde sui miei zigomi, accorgendosi dei miei occhi lucidi.

«Vieni qui», mi cinse tra le braccia.

Poggiai il capo nell'incavo del suo collo, facendomi inebriare dal suo profumo. Lui rimase con la testa china all'indietro, in totale contemplazione del mio dolore. Senza dire nulla. Nemmeno una singola parola. Niente. Fino a che sentii la sua lingua prendere possesso della mia bocca.

Un bacio appassionato, tenero, disperato. Pieno di ogni nostra promessa, bugia, gioia. Era il sapore di un addio. Un ultimo saluto strappalacrime. Lo era davvero? Non ci saremmo più visti? Lui sarebbe sparito?

Le sue labbra premevano sulle mie con una forza incredibile, come se volesse divorarmi e conservare il mio ricordo per tutta la vita. Sentii il sapore salato di una lacrima. Non poteva essere la mia, avevo combattuto per evitarlo. Era la sua. Tenni le iridi fisse nelle sue. La sua sofferenza era pari alla mia. Il suo dolore era il mio. Allora perché stava permettendo al destino di dividerci?

Lentamente, posai i piedi sul freddo terreno che circondava il vialetto antistante la mia dimora, scendendo dalla macchina. Non lo salutai. Il mio cuore aveva già avuto abbastanza emozioni per farlo. Gli occhi del mio migliore amico mi seguivano lustri ed esaminatori al di là del vetro che ci separava. Lui dischiuse le labbra per una frazione di secondo, come a volermi fermare. Ma non lo fece. Non emise un singolo fiato.

Una fitta allo sterno mi fece accapponare la pelle: stavo per avere un attacco di panico. Nuovamente. Cercai di contare i miei respiri per calmare il mio stato d'animo. Uno. Due. Tre. Lo spasmo allentò la sua presa attorno alla mia vita, così mi allontanai a grandi falcate dalla sua automobile.

Rimasi seduta sugli scalini a osservare la notte stellata e a riflettere. La piccola Ginevra. Sempre così impulsiva. Ma se avesse avuto ragione lui? Se stessi confondendo le cose? Mi appoggiai alla porta e chiusi gli occhi. Non potevo sapere ciò che il destino avesse in serbo per me, ma sicuramente, lo avrei affrontato a testa alta.


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