♥ 39 - Nightmare ♥

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La mattina seguente, un sorriso innamorato si formò sul mio volto nel constatare che il mio migliore amico si trovava sdraiato accanto a me, bello come un Dio. Sfiorai delicatamente le sue labbra, imprimendo un bacio simbolico. Mi preparai velocemente, indossando un abitino lilla e un paio di scarpe da ginnastica eleganti. Sarei dovuta andare a informarmi in merito al tirocinio curriculare che l'università ci dava la possibilità di svolgere.

Ero veramente al settimo cielo, anche perché Raffaele mi aveva scritto che forse avremmo potuto ritrovarci nella stessa organizzazione. Quel ragazzo aveva la capacità di accontentare gli altri in un modo impressionante. Sicuramente, la professione che avrebbe intrapreso in futuro, gli calzava a pennello.

Presi la metro da sola, fischiettando e saltellando. Non mi capitavano spesso questi slanci di felicità. Avevo compreso che il mio rapporto con Manuel era speciale. Non giusto o perfetto, ma nostro. Decisi di infilarmi le cuffiette per sentire un po' di musica. Sebbene non ascoltassi quel genere di canzoni, le parole di Emis Killa sembravano parlare di me e Manuel. Era esattamente la nostra descrizione. Feci un sorrisino da ebete e cantai sottovoce, rapita dal testo.

"È tardi, rimani

Non dirmi di nuovo "domani lavoro"

Ti arrabbi, non chiami

Perché non hai ancora imparato a fidarti di me

E non serve che ce lo diciamo

Legati anche senza tenerci per mano

Finiti per caso in un gioco sbagliato"

Mi voltai, scorgendo un ragazzo incappucciato, seduto vicino al mio sedile. Aveva un'aria familiare, così lo guardai di sottecchi. Sembrava essere molto alto e muscoloso. Il genere di ragazzi che piaceva a Denise, considerai. Mi alzai per scendere alla fermata e lui fece lo stesso. I miei sensi cominciarono a mettermi in uno stato di allerta, come quando hai la netta sensazione che qualcosa stia per andare storto. Imboccai la via sotterranea che mi avrebbe condotta alla facoltà. Percepivo dei passi pesanti e mi girai istintivamente, quando una mano mi bloccò.

Il ragazzo con il cappuccio. Cosa diavolo voleva? Forse delle indicazioni? Provai a captare le sue intenzioni, ma la curiosità prese il sopravvento.

Spensi la mia playlist, guardandolo di traverso: «Serve aiuto?», incrociai le braccia al petto, in attesa di una risposta.

Muto come un pesce, teneva il capo chino e mi stringeva per la giacca, con maggiore intensità. Mi allontanai di scatto, senza successo. La sua presa salda impediva e bloccava i miei movimenti.

«Scusa, cosa vuoi? Chi sei?» Sbraitai, ma lui non reagì.

La situazione iniziava a spaventarmi seriamente, il terrore di essere finita nelle mani di un maniaco era concreto. Uno sconosciuto che in metropolitana ti prende per la casacca non è il massimo dell'esperienza.

Finalmente alzò la testa, liberandosi dall'indumento che lo aveva tenuto coperto fino a quell'istante.

Mi guardò dritto negli occhi: «Ginevra, dobbiamo parlare.»

Non potetti credere a ciò che la mia vista mi stava suggerendo. Il mio cuore perse un battito e le gambe cedettero per un millesimo di secondo. Vederlo di fronte a me aveva paralizzato di nuovo il mio corpo. Mi sentivo inerme. Quello sguardo vuoto e spietato di chi non ha nulla da perdere. I suoi muscoli possenti e tonici che avevo ammiravo e adoravo. La sua stazza mastodontica, che un tempo trovavo eccitante, ora riusciva soltanto a farmi paura. La sua dominanza e il suo viso irregolare scolpito nel marmo. Lui. Il mio gigante buono, possente ma gentile.

«Io... Io non voglio... Vai via... Mi metto a gridare», tentai di formulare una frase di senso compiuto, tremando a dismisura, dannatamente atterrita.

Mi chiuse la bocca, premendomi contro il muro giallastro di un appartamento alle nostre spalle, facendo aderire i nostri corpi. Pensai all'emozione che provavo quando i nostri organismi si sincronizzavano e lui scivolava velocemente dentro di me. A quanto prima il suo odore fosse paradisiaco per me, prima che le sue mani diventassero il mio inferno.

«Non gridare, ok? Finiresti solo per farti del male e peggiorare le cose» il tono di voce profondo, eccitato dalla caccia che lo aveva condotto finalmente dalla sua preda.

Mi dimenai, pregando che qualcuno avesse preso la mia stessa direzione, che mi soccorresse dal mio amore malato. La sua stretta, però, era di una forza nettamente superiore alla mia. Mi alzò di peso, annusando il mio odore, appoggiando la testa sui miei seni e sollevandomi l'abito fino a scoprire il mio intimo. Rabbrividii e le lacrime rigarono le mie guance. Si bloccò istantaneamente, sentendosi rifiutato e mi baciò. La sua lingua si impossessò della mia, ma non c'era amore nel suo gesto. Solo ossessione. Solo una profonda mancanza viscerale e sbagliata. Cercai di serrare la bocca: non poteva obbligarmi ad amarlo.

Tentai di recuperare il cellulare dalla tasca destra della mia borsa color avorio, pregando che fosse talmente distratto dal mio rigetto da non farci caso. Con un movimento fulmineo, gettò la borsa a pochi metri da me, spegnendo il telefono e privandomi dell'unica fonte di aiuto che avrei potuto ricevere.

«Amore mio, finalmente possiamo stare insieme», lo disse con un accento gioioso, come quando un bambino è riuscito a ottenere il suo giocattolo preferito dopo averlo desiderato tanto.

«Lasciami andare, ti prego, Luca...», piansi disperatamente ma la pietà non era mai stata il suo forte.

«Tu sei mia, Ginevra. Solo mia. Devi solo ricordartelo», si avvicinò nuovamente, infilando un dito ruvido nelle mie mutandine, mugugnando.

Trasalii a quel contatto, frignando come un neonato e riempiendolo di calci. La sua evidente protuberanza mi indusse a capire che per lui fosse soltanto un gioco divertente. Si stava eccitando, mentre io stavo per vomitare.

«Non sono tua! Non lo sarò mai più!», gli sputai addosso in preda a una rabbia disumana.

«Amore, mi stai facendo incazzare. Lo sai che adoro questo tuo carattere così vivace, ma frena. Lo sai che poi dovrò punirti, piccola...», il suo rimprovero così sottile e delicato mi spiazzò.

Non avevo via d'uscita. Dovevo assecondarlo e attendere il momento giusto per fregarlo. Meditai ai possibili scenari, ma l'unica soluzione era seguirlo. Mi avrebbero rintracciata, giusto?

«Scusami, sono arrabbiata per le nostre ultime vicissitudini», finsi, celando il disgusto che la sua persona mi faceva provare.

«Ok, ora da brava usciamo da questo posto... Segui il tuo paparino.» I palmi freddi si intirizzirono ulteriormente vicino ai suoi e il suo ghigno compiaciuto decretava che ero caduta nella tana del lupo. Sarei stata abbastanza intelligente da cavarmela?

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