♥ 29 - Dream ♥

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I giorni seguenti mi recai costantemente in ospedale per far visita a Manuel. Incontravo spesso Alessia, che lo guardava teneramente dalle sedie poste di fronte alla camera o che gli parlava con le lacrime agli occhi. Portava gli stessi indumenti dal minuto successivo all'incidente, come se fosse finita in un loop temporale senza via d'uscita. I capelli spettinati, sempre più ricolmi di nodi, le si erano aggrovigliati come una matassa informe al di sotto della nuca. Lo sguardo truce e disperso di chi spera ardentemente in qualcosa. Realizzai che lei provava un affetto sincero per il mio migliore amico e che, probabilmente, avrei dovuto farmi da parte per permetterle di rubargli il cuore finalmente. Lui che aveva sempre desiderato fuggire dal vero sentimento, si meritava una persona che sapesse amarlo come è di dovere. La mia presenza tra loro iniziava a non avere alcun senso, come un pezzo di una scacchiera riposto sulla casella sbagliata.

In quel momento, però, contava soltanto il suo risveglio. Quell'istante in cui si sarebbe affacciato nuovamente alla vita. Avevo un bisogno urgente di contemplare i suoi occhi, di trovarmi con lui accanto mentre ci confidavamo sulle nostre esperienze a vicenda. Nonostante tutto fosse cambiato, alla fine nulla lo era davvero.

I medici aggiornavano prontamente i suoi genitori sul suo stato di salute e, sostenevano, che avrebbero dovuto tenerlo altro tempo in quella condizione per evitare peggioramenti. Sperai che avessero ragione, che non fosse soltanto un modo per rimandare l'inevitabile, che non stessero mentendo.

Mi sedetti sulla sedia rovinata accanto al suo letto. Posai sul comodino il suo pacchetto di sigarette, il bracciale argentato che aveva dimenticato a casa mia e una foto di noi due che avevo fatto stampare. Essa ritraeva il giorno del diploma: i nostri sorrisi palpabili e le braccia strette le une sulle altre. Estrassi un vaso bianco e rosso, contornato di foglie in metallo e vi riposi alcune rose che avevo comprato poco prima di recarmi in ospedale. Erano rose bianche. Pure. Come lo era il nostro affetto un tempo. Innocente. Nessuno avrebbe mai immaginato che quei piccoli fiori simboleggiassero in realtà un sentimento profondo, che tentavo di reprimere al mondo.

Mi gettai all'indietro con tutto il peso del corpo. La stanchezza iniziava a prendere piede, rubandomi energia preziosa. Avevo deciso di contemplare un libro accanto a lui. Sembrava qualcosa di intimo, di surreale. Un sogno nel cassetto che non sapevo di avere.

Cominciai a leggere "Orgoglio e pregiudizio" di Jane Austen a voce alta, soffermandomi su queste parole:

"Ho lottato invano. Non c'è rimedio. Non sono in grado di reprimere i miei sentimenti. Lasciate che vi dica con quanto ardore io vi ammiri e vi ami."

Mi scese una lacrima. Quella frase pareva perfetta. Persino le mie labbra nel pronunciarla avevano prodotto una melodia intonata. Tanto lui non poteva sentirmi. O forse sì?

«Manuel. Io ho bisogno di te. Tutti ne abbiamo. Ti prego non fare scherzi e vedi di svegliarti quando smetteranno i farmaci.»

Alessia mi chiese con un gesto se potessimo darci il cambio. La sua tuta grigia incupiva ulteriormente la sua carnagione chiara. Annuii svogliatamente. La vidi fissare la fotografia e, con una smorfia di dolore, abbassare lo sguardo. Forse era gelosa, la capivo. Per qualsiasi ragazza che lui avesse avuto io ero il nemico numero uno. Quella da allontanare, da evitare, da cui si deve stare in guardia. Avevamo un rapporto talmente morboso che nessuno sarebbe riuscito a farselo stare bene.

Dopo poco la mia dolce Elisa varcò la soglia della sala d'aspetto, attraversando il corridoio lungo e silenzioso. I suoi riflessi dorati rilucevano e gli occhi verdi brillavano intensamente. La tuta rossa e bianca a cingerle le forme con grazia, mentre stringeva con vigore la tracolla contenente il computer.

Il suo sguardo faceva trapelare tristezza e dolore. Considerava Manuel come un fratello e, benché, stessero a battibeccare e prendersi in giro continuamente, lui era un punto fermo della sua esistenza.

«Tesoro», la chiamai a gran voce, facendo voltare alcuni medici che discutevano sulla terapia da somministrare a un paziente.

«Gin, volevo vedere come stava Manu», il tono delicato delle sue corde vocali la dipingevano come una bambina indifesa.

«Puoi entrare, se vuoi, piccola peste». Le sfiorai la pelle morbida per una frazione di secondo.

Vidi il suo corpo rimanere paralizzato e quindi aggiunsi: «Stai tranquilla, piccola. Manuel ama le entrate in scena teatrali. Vedrai che quando si sveglierà starà benissimo.»

Mia sorella mi cinse la vita, facendo sprofondare il viso all'interno della mia folta chioma.

«Quando si riprenderà lo prenderò personalmente a schiaffi.» Cercò di modulare l'inflessione della sua voce, facendola apparire scherzosa, mentre asciugava una lacrima con il dorso della mano.

«Oh, puoi giurarci.»

La scrutai mentre pregava in silenzio di non perdere anche lui. Forse lo stava chiedendo a nostro padre. La sua ingenuità mi tramortì, come ogni volta.

**

Trascorrevo così tanto tempo nella struttura che ormai conoscevo a memoria i volti dei medici, degli infermieri e persino degli inservienti. Individui dall'animo nobile che intrattenevano con me anche qualche conversazione ogni tanto. Elsa apprezzava di gran lunga la mia presenza, la faceva sentire meno sola e placava i suoi pensieri scuri. Alessia, al contrario, sembrava non volermi tra i piedi. Dal momento in cui avevo posizionato quella sciocca fotografia sul comodino di Manuel, si era trasformata in un automa silenzioso e contrariato. Alessandro cercava di starmi accanto in qualsiasi modo, anche per portarmi un pasto caldo o per farmi uscire per una passeggiata. Era decisamente premuroso e insostituibile.

Mi sembrava di essere sprofondata nel mio inferno personale. Ultimamente io e Manuel non ci sentivamo più come un tempo, ma lui era parte di me, era dentro di me. Saperlo sdraiato sopra a un letto di ospedale mi faceva soffocare, era come se mi avessero amputato un arto. Due settimane. Due lunghissime settimane di agonia. Avevo interrotto la mia vita, avevo tagliato fuori l'universo intero per poter essere sempre in prima linea.

Stavo leggendo "Cime Tempestose" di Bronte, assorta nei miei pensieri, quando due figure slanciate si rivolsero a Elsa. Indossavano una tuta blu con delle targhette bianche sul lato sinistro della felpa. La mascherina a coprire le vie respiratorie, guanti in lattice per prevenire batteri, capelli perfettamente curati e adagiati all'interno di una cuffietta azzurra e zoccoli in plastica ai piedi.

«Domani interromperemo i farmaci, così suo figlio potrà ristabilirsi al meglio», enunciarono cordialmente. I visi distesi, ma indecifrabili.

«Cosa? Grazie, davvero», replicò la mia seconda mamma, colma di speranza. Il suo sguardo pareva illuminato dalla luce incandescente di una stella cadente: sembrava ancora più attraente di quanto già non fosse.

«Si figuri, è il nostro lavoro, signora», sussurrarono, continuando a camminare per raggiungere le varie stanze. Probabilmente avevano altre notizie da comunicare.

Mi alzai di scatto, facendo schiantare il libro a terra e producendo un tonfo rumoroso. Mi lanciai verso di lei, abbracciandola con un vigore inaspettato. Quell'annuncio mi aveva ridato la vitalità che avevo perduto in quelle settimane e la carica di adrenalina mi spinse a saltellare come un ossesso. Avrei rivisto il suo sorriso.

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