♥ 17 - Maybe ♥

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Per tutto il tragitto, battei nervosamente le nocche sulla portiera, immersa nell'imbarazzo più totale. Non volevo dire o fare qualcosa di sbagliato. Mi conoscevo. Rovinavo sempre tutto con le mie mani.

«Dove mi porti?» Presi coraggio, sorridendo timidamente.

«Al mare. Spero ti piaccia», mi sfiorò leggermente il dorso della mano, facendomi scostare di riflesso.

«Oh, certo», adoravo il mare. Mio malgrado, però, i ricordi migliori di esso erano al contempo i peggiori, poiché vedevano sempre un singolo individuo ad accompagnarmi: Luca. Era buffo che fossi andata in quel luogo così spesso, tanto da ricordare a memoria i suoni lenti delle onde scontrarsi sugli scogli frastagliati o lo schiumeggiare lieve dell'acqua all'incontro con la sabbia.

Arrivati a destinazione, parcheggiammo sulla strada. Il paesaggio era tipico di una località balneare, con le strade ampie, a costeggiare il litorale, colmo di prefabbricati pittati di arcobaleno. I palazzi si ergevano imponenti alla fine della carreggiata, rigorosamente color avorio e pieni di finestre minuscole, bianche. L'aria salmastra era un tripudio di sensazioni nostalgiche, gioviali, tanto da trasportare l'anima in luoghi sconosciuti. Non appena posai i piedi sull'asfalto, notai alcune comitive di ragazzini, che organizzavano giochi nell'acqua o che si sfidavano a biliardino, le famiglie, intente a quietare gli strilli dei bambini o a insegnar loro a nuotare.

La passatoia strabordava di sabbia e di felicità, sulla sinistra un locale minuscolo celeste, fungeva da bar e da ristorante. Un uomo sulla cinquantina sorrideva ai passanti in modo onesto, promettendo il miglior caffè del lido.

Avanzammo lentamente e, con piacere, notai che Alessandro non tentò più un approccio fisico. Probabilmente, il mio gesto precedente, lo aveva scoraggiato. Pensai che ci saremmo fermati sul lettino o che avremmo fatto il bagno, ma lui mi fece cenno di proseguire. Superammo allora quel tratto, fino a ritrovarci di fronte ad una festa. Il luogo era colmo di ragazzi che ballavano e si divertivano, c'era musica ovunque e ciò mi mise molta allegria. Era una specie di capanna, che aveva spazio a malapena per uno stereo, da cui fuoriusciva un baccano allucinante e un chiosco, che ospitava bevande e cibo, per rifocillarsi. Benché l'età media fosse sui quindici anni, sembrava essere un'occasione perfetta per divertirsi: adoravo ballare.

Alessandro mi incitò a togliermi le scarpe e mi trascinò, per mano, in mezzo alla mischia, a saltellare come due folli. Era solare, divertente e sembrava un ragazzo con la testa sulle spalle. Mi faceva sentire speciale, come se fossi una specie di reliquia da conservare accuratamente. Portò le mie mani verso il cielo, strette insieme alle sue, come un nodo piacevole. Urlammo, cantando le hit dell'estate come due adolescenti eccitati. Ci dimenammo per ore, perdendo la concezione del tempo, dell'attimo, della vita e del mondo. A un certo punto mi fissò, inebetito, come se stesse rimirando una stella cometa.

«Ti va un panino?» Il suo sorriso contagioso era disarmante, non riuscii a non ricambiarlo.

«Certo! Ho una fame!» Pensai che forse avrei dovuto essere meno diretta, ma me ne infischiai.

Si diresse verso il chiosco, tornando verso di me con due filoni enormi, ripieni di ogni bendidio. Applaudii, estasiata, avrei ingerito una tavola intera. Mangiammo in silenzio, appoggiati al di sopra di un pedalò arrugginito, osservando il tramonto: era una cosa veramente romantica.

Parlammo di tutto. Gli raccontai di mio padre, di come era morto. Del periodo buio e nero dopo il suo incidente. Gli raccontai di Luca, della sua violenza e dell'episodio recente. Lui fece altrettanto e mi rivelò che era uscito da una relazione frustrante in cui doveva continuamente nascondere ogni singola cosa per non venire accusato di essere un menefreghista. Era bello e quando rideva comparivano due fossette sulle sue guance, erano talmente adorabili che avrei voluto morderle.

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