♥ 30 - Relief ♥

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I medici avevano interrotto i farmaci che costringevano il mio migliore amico a rimanere sdraiato sopra a un freddo letto di ospedale. La decisione più spaventosa, ma allo stesso tempo eccitante, delle ultime settimane. Fu come osservare lo scorrere lento di un orologio che sta per esaurire le batterie.

Avevano detto che si sarebbe svegliato a breve. Avevano promesso che avremmo rivisto i suoi occhi vispi e guizzanti posarsi nei nostri. Ma così non fu. Non il primo giorno. Manuel continuava a dormire e i medici farfugliavano scuse astruse che tiravano in ballo la dose dei farmaci iniettata nel suo corpo. Le mie unghie rasentavano la carne: l'agitazione si sfogava come poteva. Altrimenti, avrei dovuto sbattere il capo al di sopra di un muro di cemento una miriade di volte.

Elsa era provatissima, nonostante cercasse di nascondere il suo stato d'animo. Non riusciva a riposare e le uniche volte che chiudeva le palpebre aveva degli incubi raccapriccianti riguardanti il figlio. Teneva i capelli legati in uno chignon e lo sguardo vitreo, privo di vita. Io ero impaziente, inerme. Percepivo un vuoto senso di impotenza opprimermi l'anima. Non potevo aiutarlo in alcuna maniera, se non con il mio supporto.

Iniziai a pensare che forse non si sarebbe più svegliato, che non avrei avuto più occasione di abbracciarlo e queste immagini mi facevano soffrire smisuratamente. Era come se mi avessero conficcato nel cuore un pugnale appuntito.

Avrei dovuto insistere con lui. Avrei dovuto dirgli subito che gli appartenevo, perché ora non avrei avuto più nessuna opportunità per farlo. Mi odiavo. Detestavo il modo in cui tendevo ad auto sabotarmi in ogni frangente. La mia innata tendenza di far scemare via le cose belle in un battito di ciglia, ritenendo solo lo schifo del mondo.

Cominciai a vagare sul Web in cerca di situazioni simili, dove i pazienti non si risvegliavano in modo spontaneo dopo un coma indotto dai medicinali. Trovai storie agghiaccianti, che mi fecero solo rabbrividire e mi allarmarono ulteriormente.

Il mio cellulare vibrò, mostrando il nome di Alessandro. Decisi di rispondere. Negli ultimi giorni avevo evitato di chiamare i nostri amici perché mi riempivano di domande a cui non ero proprio in grado di ribattere.

«Ale», risposi con la voce rotta.

«Ginny. Stai bene? Il tuo amico? Mi fai veramente preoccupare», esclamò in un tono così dolce che avrei voluto stritolarlo in un abbraccio.

«Ancora no. Forse è normale. Non lo so. Mi sento come se non stessi facendo abbastanza, Ale...» Trattenni le lacrime. Non volevo piangere di nuovo. Versavo in uno stato pietoso da settimane.

«Ginny. Domani passo a trovarti, ok? Non mi va di saperti li tutta sola senza il mio supporto.» Riusciva a essere sempre amorevole e delicato.

«Sei veramente dolcissimo. Grazie.»

Sospirai, cercando di immagazzinare quanta più aria possibile espandendo il diaframma. Le tecniche di respirazione che avevo appreso si erano rivelate molto utili per gestire l'ansia.

Chiuse la chiamata salutandomi e io rientrai nell'oblio della mia mente. Rimuginavo sull'ultima conversazione avuta con Manuel a quella stupida festa. Avevo un talento naturale nel far precipitare le circostanze nel più breve tempo possibile.

Improvvisamente, un leggero tocco mi risvegliò dal torpore scatenato dai miei pensieri. Elsa. Parlò molto in fretta, tanto che il mio cervello non riuscì a elaborare le sue frasi sconnesse. Fissavo le sue meravigliose iridi celesti, come un automa. Quello che successe dopo fu soltanto il mio corpo che si muoveva così velocemente da farmi smettere di fiatare e le mie mani che spalancavano la porta della stanza grigia di Manuel.

I suoi occhi incontrarono finalmente i miei e mi parve un miracolo. Era pallido, con segni violacei sparsi qua e là sopra la sua sagoma perfetta. Le occhiaie marcate e le palpebre semiaperte, sembrava che volesse filtrare la luce per proteggersi dal chiarore.

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