♥ 41 - Lake ♥

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Sbattei le palpebre delicatamente, tastandomi la nuca dolente. Gli occhi scuri e sgomenti di Luca fissi nei miei. Per un brevissimo istante, sembrò di nuovo umano e non quel tremendo mostro che usufruiva della violenza per dominarmi.

«Dove siamo?», biascicai, senza rammentare che quello era il mio aggressore e mi trovavo ancora in sua compagnia.

«Al lago. Mi hai spaventato, Ginevra», replicò con infinita tenerezza. Le sue iridi parevano accogliermi: voleva incantarmi con la dolcezza per poi darmi il colpo di grazia.

Era sua abitudine: un abile oratore che sapeva come riempire qualcuno di attenzioni, conosceva a memoria le debolezze dell'altro e le sfruttava per sottometterlo.

«Lago?», mi guardai attorno, sgranando gli occhi, totalmente inconsapevole della vicenda.

Avrebbe potuto uccidermi o abusare di me in ogni modo possibile, perché diavolo mi aveva portata lì?

Intorno a noi soltanto una superficie verdeggiante, con una minuscola stradina ciottolosa che arginava la distesa di acqua cristallina. Una pace fuori dal comune, un luogo isolato, per ritrovare sé stessi e perdersi di nuovo. Un piccolo ponte che permetteva di immergersi e scomparire nella trasparenza più totale, circondato da alte canne e colmo di ninfee violacee. Un'illusione dentro a un incubo.

Il sole illuminava la sua carnagione abbronzata: era rimasto in canottiera, mostrando i tatuaggi a fasce nere che aveva impresso sulle braccia muscolose. Un tempo la sua bellezza mi toglieva il fiato, la ragione. Era in grado di catapultarmi in un sogno. Ora, però, dovevo rimanere lucida.

«Che vuoi da me, Luca?», distolsi lo sguardo dalle sue pupille nere e capii.

Eravamo già stati lì. Una vita fa: avevamo trascorso una giornata meravigliosa. Mi aveva portata in barca ed eravamo rimasti a contemplare il tramonto abbracciati, stretti, fusi in un solo corpo. Aveva giurato che mi avrebbe sposata e che saremmo stati la coppia migliore dell'universo, in quel momento e per l'eternità.

«Voglio che tu capisca che siamo fatti per stare insieme», mi sorrise flebilmente e continuò: «Permettimi di farti vedere quanto ancora possiamo essere felici».

«Luca, tu mi hai picchiata», strinsi l'erba fresca: i ricordi erano sempre molto amari.

Non sarebbe mai riuscito a farmi dimenticare il dolore, le percosse e la violenza psicologica a cui ero stata sottoposta a causa sua. Non sarebbero bastati nemmeno un trilione di anni.

«Ginevra, ma è colpa tua, se tu ti comportassi bene io non lo farei», aveva il tono di un genitore che cerca per l'ennesima volta di spiegare come va il mondo al figlio piccolo.

Strabuzzai gli occhi, urlando: «Ma cosa dici?»

Le gambe mi pregavano di muovermi alla velocità della luce e sfuggire al mio carnefice.

«Tu mi sfidi, non dovresti. Ti ho vista con quel ragazzo. Tu sei mia, capisci?», serrò i pugni e compresi che stava per colpirmi di nuovo.

La sua stazza imponente mi faceva sentire indifesa e debole. Non avevo alcuna possibilità contro di lui.

«Io non ho nessun ragazzo, Luca. Nessuno. Ridammi il telefono, per favore», implorai, sbattendo le ciglia innocentemente. Non era affar suo se il mio cuore era stato riempito da un'altra persona.

«No. Tu stai qui con me, oggi. Nemmeno il tuo amichetto verrà in tuo aiuto», sbraitò, paonazzo in volto. La gelosia lo mandava fuori di testa, tanto da sembrare un animale ferito e incontrollabile.

Si riferiva a Manuel. Era sempre stato sospettoso riguardo al nostro rapporto di amicizia. Mi aveva persino costretta a evitarlo il più possibile. Dovevo continuamente mentire per poter vivere.

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