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Dopo che Akai ritornò nel punto in cui gli altri Senshi avevano acceso il falò, ebbe addosso gli sguardi di tutti. Matt gli chiese se stesse bene e Akai rispose in maniera affermativa. Aaron scelse di sua spontanea volontà di non leggere ulteriormente i pensieri del moro, avendolo già fatto mentre quest'ultimo parlava con Honzu. Alex richiuse gli occhi.
Irina fece notare ad Akai che egli non aveva mangiato il cibo offertogli dal cervo umanoide. Dei frutti, che attualmente giacevano a pochi metri dal ragazzo inglese. Akai disse che non li voleva e che avrebbero potuto dividerseli tra di loro. Inutile dire che gran parte di quei frutti finì nello stomaco di Matt.

Passarono delle ore, ma gli occhi del ragazzo asiatico continuavano ad emanare una vaga tristezza. Erano pensierosi, come sempre, e avevano cambiato la loro colorazione, diventando color rosso vino.
Quando gli occhi di tutti furono rivolti altrove, o magari quando li chiusero per un po', Akai si allontanò di qualche metro per provare a mangiare qualcosa, poiché il suo stomaco, giustamente, continuava a brontolare. Nonostante la fame, allo stesso tempo non aveva proprio voglia di cibo. Però la mancanza di nutrimento gli stava procurando diversi dolori alla bocca dello stomaco.
Si avvicinò ad un albero che era circondato da pesche col pelo. Ne prese una e la fissò. Ad Akai piacevano maggiormente i frutti rossi, i gusti degli altri gli risultavano totalmente indifferenti. O almeno, così era prima di iniziare questa spedizione, perché adesso, al sol pensiero di una fragola, o di una ciliegia, gli veniva spontaneo fare una faccia schifata.
Prima di assaggiare il frutto che teneva in mano, Akai deglutì e respirò pesantemente, poi, quando diede un morso, sputò istantaneamente. Si tappò la bocca col dorso dell'altra mano, sembrava dovesse nuovamente vomitare. Guardò la pesca, aveva le sopracciglia lievemente inarcate dal disgusto e un pizzico di pelle d'oca su tutto il corpo. Fa... davvero schifo. Gli sembrava che al posto della peluria di quella pesca ci fosse della polvere, mentre l'interno pareva argilla umida ricoperta in parte da un granello di zucchero. Lasciò cadere il frutto a terra e si allontanò da quel punto.

Ore 04:35, esattamente due minuti e ventisette secondi dopo che Aaron aprì gli occhi.

Il ragazzo dagli occhi color prasino si alzò da terra, si stiracchiò distintamente, facendo scrocchiare alcune delle sue ossa. Vide che gli altri erano impegnati a riposare ulteriormente, al fine di essere ancora più in forma per quando il sole avrebbe nuovamente illuminato il loro percorso.
Notò che mancava qualcuno all'appello, ma poi, cercando un po' in giro, trovò l'elemento mancante. Akai sedeva di spalle ad un albero, con la testa girata alla sua destra. Aaron decise di andargli a fare compagnia.
«Ehi», disse, una volta che gli arrivò di fianco. Akai girò lentamente la testa verso il canadese, e il modo in cui "ricambiò" il saluto fu guardandolo. «Ci ritroviamo nuovamente a parlare nel cuore della notte, mentre tutti gli altri dormono», disse Aaron, mentre prese posto di fianco al suo compagno di squadra. Akai non sembrava essere contrario nell'avere un po' di compagnia. «Anche se ci siamo involontariamente addormentati in pieno giorno, la stanchezza non ci vuole abbandonare e ci costringe a riposare anche dopo aver dormito per ore. Tu hai chiuso occhio da quando il fuoco si è spento?», domandò.
Nel momento in cui gli occhi di Aaron vennero davvero a contatto con quelli di Akai, quest'ultimo distolse lo sguardo, sospirando pesantemente. «No», rispose.
«Oh... non hai neanche toccato cibo nelle ultime ventiquattro ore. Come mai?».
Proprio in quell'attimo, lo stomaco del ragazzo dai capelli scuri brontolò. «Mentirei se dicessi di saperne il motivo, o se dicessi che, nonostante questo, mi sento in ottima forma». Aaron notò che i suoi occhi erano stranamente spenti. «Però, non serve essere in pensiero per me».
«Va bene», disse Aaron, abbassando lo sguardo. «Ah, se te la senti, vorrei parlare di una cosa che ti riguarda».
«Ovvero?», domandò Akai, con un pizzico di curiosità.
Aaron mise le braccia attorno alla gamba destra e disse: «Ecco, facendo uso di una mia tecnica, sono riuscito a sentire i tuoi pensieri mentre eri con Honzu. Beh, sarebbe più corretto dire che ho sentito quelli di tutti e tre». Si stava riferendo al Mind Hunt e Akai ci era arrivato quasi istantaneamente.
Il ragazzo dagli occhi cremisi contrasse la mandibola, e con tono arido chiese: «E quindi? Come mai me lo stai dicendo?»
Le guance di Aaron si fecero più rosse e gli occhi si socchiusero di poco. «Voglio assicurarmi che tu stia bene», rispose.
«Sì, sto bene», disse frettolosamente Akai.
«Lo capisco dal tuo sguardo che non sei pienamente sincero».
«O magari stai frugando nei miei pensieri».
«No, assolutamente. Akai, non voglio che tu pensi che io utilizzi il mio potere per fini personali, per poter scoprire lati del carattere di una persona e poi usarli come arma contro quest'ultima. Questo, a mio parere, è un atteggiamento viscido e meschino, e si distacca completamente dalla persona che sono». Mentre pronunciava quelle parole, il ragazzo canadese cambiò posizione, mettendosi in ginocchio e guardare Akai con entrambi gli occhi, non più con la coda di quello destro.
Il ragazzo asiatico, percependo la lieve agitazione del suo compagno di squadra, assunse un timbro di voce più gentile, dicendogli: «Non c'era bisogno che me lo dicessi. Non c'è neanche bisogno di preoccuparsi. Non l'ho mai pensato. Si vede che sei una persona di buon cuore, Aaron».
Quel poco di adrenalina presente nel corpo di Aaron era ora stata rimpiazzata da un forte senso di imbarazzo. Però, quella sensazione era abbastanza piacevole. «G-Grazie», disse. «C-Comunque, v-volevo dirti che io, se pur in maniera incompleta, riesco a c-comprendere il tuo stato d'animo. Anzi, i-in realtà penso che qui lo capiscano tutti. Infondo, se tutti noi veniamo soprannominati 'Senshi' è perché qualcosa in comune la abbiamo».
Akai puntò lo sguardo in avanti, contro un tronco a pochi metri da lui. «Ma certo, questo non lo metto in dubbio. Semplicemente, non ci conosciamo bene. Io sono al corrente della vostra esistenza da almeno cinque anni, ma questa è la prima volta che ci vediamo. E sarà anche l'ultima, suppongo».
Attualmente il ragazzo dai capelli dorati non stava leggendo i pensieri del moro, ma poteva percepire le sua tristezza tramite lo sguardo. «Beh, questo... si vedrà in futuro».
«Mhmh», rispose l'asiatico, immaginando di disegnare qualcosa sul prato servendosi dell'indice.
«Akai».
«Che c'è?».
«Ti andrebbe di conoscerci meglio?», domandò Aaron, e Akai lo guardò stranito. «Intendo, conoscere al meglio le varie sfaccettature dell'altro. Come hai detto tu, questa potrebbe essere l'unica volta in cui tutti noi ci incontreremo, quindi... non credo sia così... ecco... b-bizzarra, come cosa». Riprese ad arrossire.
Akai ci pensò per qualche secondo, per poi rispondergli in maniera affermativa. «D'accordo, per me va bene. In ogni caso non sarei in grado di riposarmi», aggiunse.
«Se vuoi comincio io a fare le domande», disse il canadese, mentre accennò un sorriso.
«Va bene».
«La prima è una domanda per me fondamentale per iniziare un discorso. Nonostante sia spesso sottovalutata, poiché in molti la usano come fosse un saluto, ignorando il vero significato e una possibile risposta».
«E quale sarebbe?»
Prima di rivelargliela, Aaron lo fissò per dei brevissimi attimi, e poi gliela fece. «Tu... come stai?».
Come sto? Akai sorrise indistintamente.
«Anche se è una domanda che sento spesso fare... devo ammettere che non è facile rispondere onestamente. In molti si limitano a rispondere in maniera frettolosa che stanno bene, tutto questo solo per evitare di aprirsi con chiunque. Effettivamente, questa domanda non ci viene posta solo dalle persone di cui ci fidiamo e con cui vorremmo aprirci. Ad ogni modo... come mi sento... Io mi sento vuoto. Da quando ho memoria, ho sempre percepito che una grande parte di me mancasse. Diciamo che, per molto tempo, ho provato a cercarla, ma senza successo». Lo sguardo del ragazzo si fece più spento, e in pochi attimi divenne ancora più triste.
Aaron lo imitò, poiché gli venne istintivamente da provare un minimo di compassione. «È come se stessi cercando il pezzo del puzzle che ti farebbe sentire completo?», chiese, con un filo di voce.
«No, non si tratta di un singolo pezzo, si tratta dell'intero puzzle. Ora come ora, mantenendo questa metafora, potrei dirti che la mia personalità è formata da un solo pezzo di un puzzle estremamente complicato».
«Come mai complicato?».
«Perché neanch'io riesco a comprendermi a pieno». Akai fece una breve pausa e si morse delicatamente le labbra. «Tu hai letto i miei pensieri, quindi avrai percepito il mio groviglio mentale», disse, poi.
«Sì, l'ho percepito», rispose Aaron, guardandosi il ginocchio.
«È come se stessi cercando di percorrere questo labirinto per trovare un singolo pezzo del puzzle che rappresenta la mia persona, senza però avere successo. Quindi, per rispondere in maniera più dettagliata alla tua domanda: attualmente, ma non solo, mi sento vuoto. Poche volte mi sono sentito "vivo", ed è stato quando ho provato il brivido nell'uccidere qualcuno. Ma sento comunque un gigantesco vortice dentro di me, che mi fa provare dolore al petto». Quando finì la frase, Aaron si accorse che il respiro di Akai era diventato pesante, e piano piano iniziava ad affannarsi ancora di più.
«Akai», disse il biondo, e Akai gli rivolse la sua completa attenzione. Dallo sguardo che il moro aveva assunto, sembrava che Aaron avesse urlato all'improvviso il suo nome, spaventandolo.
Il respiro del ragazzo orientale iniziò a tornare regolare, e conseguentemente, quest'ultimo si calmò.
«Mi sono lasciato un tantino andare», commentò Akai, con un sorriso, ma tenendo sempre le sopracciglia curvate.
«Non... c'è niente di cui preoccuparsi. Come ti ho già detto, noi tutti possiamo comprenderti. Anche a me capita di sentirmi così», disse Aaron, tranquillizzandolo. Successivamente, quest'ultimo ritornò di spalle al tronco e continuò a parlare. «Sono talmente immerso nel mondo in cui il mio capo mi ha gettato, che quasi non riesco a vedere il mio riflesso nello specchio. Ai miei occhi non sembro più un essere umano, ma solamente un burattino costretto a seguire i fili con cui il suo padrone lo comanda». Akai spostò gli occhi sul giovane con le guance rosse, che dal suo tono di voce lasciava chiaramente trasparire l'infelicità che provava anche solo nel pensare a quello che era il suo stile di vita, mettendo anche il ragazzo asiatico di malumore.
«Che genere di missioni svolgi, tu?», domandò Akai, con sguardo curioso. Quando Aaron puntò il suo sguardo timido su di lui, il moro aggiunse: «Ieri sei stato tu a pormi questa domanda, adesso è arrivato il mio turno». Si sforzò di fare un altro sorriso, che diede un pizzico di conforto al ragazzo biondo.
«In realtà, Akai, io avrei dovuto svolgere il tuo stesso tipo di incarichi». Akai parve lievemente sorpreso. «Anch'io avrei dovuto sedurre dei target con l'obiettivo di venire a conoscenza di informazioni rilevanti per il mio capo». Sembrò che fu doloroso per Aaron pronunciare quelle parole.
«Davvero?», chiese Akai, cambiando posizione, assumendone una che assomigliasse a quella del suo compagno di squadra.
«Sì. Il mio capo mi ha sempre detto che sarei adatto a questo genere di incarichi, però... m-mi sono rifiutato». Il canadese si morse il labbro. «P-Per essere più specifici, lo feci soltanto una volta, ma fu sufficiente affinché mi restasse impresso nella memoria». Strinse i pugni, afferrando dei fili d'erba. Sembrava fosse in procinto di piangere.
Akai lo notò e gli disse: «Non sei obbligato a...».
«Oh, no, per me va bene». Cambiò posizione, mettendosi a gambe incrociate e appoggiò entrambe le braccia sulle ginocchia. Alcuni fili d'erba rimasero attaccati sui palmi delle sue mani. «Ricordo il mese, e anche il giorno: il diciannove gennaio. Il mio target era uno dei ricercati più pericolosi della Columbia Britannica, in quel fine settimana si trovava nel Distretto di Langley, così il mio capo mi ordinò di ucciderlo proprio in quei giorni. Dopo che Aubrey, la mia accompagnatrice, mi lasciò davanti al bar in cui si trovava momentaneamente il target, io presi coraggio ed entrai. Quest'ultimo era vestito con un'enorme giacca nera, pantaloni della tuta del medesimo colore, cappello di lana grigio e occhiali scuri che gli coprivano quasi metà volto. Nessuno sarebbe stato in grado di riconoscerlo. Nonostante questo, io capii immediatamente che era lui l'uomo che dovevo eliminare. Si chiamava... Brandon Jayson, ed era stato accusato di omicidio a mano armata, rapina ed infine aveva innumerevoli accuse di stupro e pedofilia. Come disse il mio capo: "L'uomo perfetto per questo tipo di missioni". Sai, a volte mi lascia senza parole la sua mancanza di tatto». Per un momento rivolse lo guardò altrove, e nel frattempo Akai si trovò d'accordo con lui. «Il mio capo mi disse che sarebbe bastato semplicemente che io mi avvicinassi a lui, il resto sarebbe accaduto senza che io me ne rendessi conto. Così feci. Andai di fianco a lui, non troppo vicino, però. Ordinai una bevanda gas... No, una bibita gasata era soltanto ciò che avrei voluto prendere, perché poi andai sul classico, e chiesi al barista, molto trasandato, di avere un tè caldo allo zenzero. Beh, dopo pochi minuti, il mio target mi notò. Io me ne accorsi percependo i suoi pensieri. Ricordo che all'incirca dieci secondi dopo avermi notato iniziò ad immaginare come fosse il mio corpo scoperto. Osservò il modo in cui bevvi il mio tè, immaginando cose oltremodo oscene... Ad ogni modo, quella era la mia occasione per... fare qualche... passo, suppongo». Aaron iniziò a sentirsi a disagio, e Akai lo notò. «Però, non sapevo cosa avrei dovuto fare. Guardarlo in modo provocante, fargli capire che lo desideravo... non sono bravo in queste cose. Anzi, c-credo di essere assolutamente negato», disse, arrossendo a dismisura. «C-Comunque, aspettò che il barista uscì dal bar per fumarsi una sigaretta per rivolgermi la parola. Provò ad attaccare bottone parlando del meteo, ma io, spaventosamente a disagio non riuscii a rispondergli, così egli pensò che lo stessi ignorando. Riprovò in maniera più diretta, dicendomi che un tè caldo era l'ideale per riscaldarsi in giornate come quella, poi mi chiese quali altri tipi di gusti di tè fossero di mio gradimento. Io, a quel punto, risposi balbettando. Non me ne resi conto, ma il mio volto era completamente rosso. Però, a lui piaceva. Leggendo i suoi pensieri capivo che non serviva per forza avere un atteggiamento provocante nei confronti della persona che si desidera sedurre, poiché quel target provava molto piacere nel vedere le mie guance arrossate e la mia voce che tremava per l'imbarazzo, tanto da farlo eccitare lentamente». Akai abbassò lo sguardo; gli sembrava di ripercorrere il giorno in cui aveva sedotto il suo ultimo target. Com'è che si chiamava? Uh... non me lo ricordo. Forse è meglio così, a che vuoi che serva ricordarmi il nome di un simile essere, pensò.
Aaron fece una breve pausa, poi continuò col suo racconto. «In quel momento, era come se il mio cervello fosse diviso in due: una parte mi diceva di smetterla di comportarmi in quel modo e di lasciar perdere tutto, mentre l'altra mi diceva di continuare, al fine di portare a termine la missione. Era come se quest'ultima parte fosse controllata dal mio capo. Comunque, involontariamente, continuai col mio solito atteggiamento timido e insicuro. Avevo quattordici anni, non ero abituato a simili attenzioni, e, in verità, non lo sono neanche adesso. Le mie orecchie diventarono più calde della bevanda che avevo ordinato, e la cosa mi infastidiva. Brandon mi chiese se fossi da quelle parti per conto mio. Io risposi di sì. Mi chiese perché. Nella mente si fece spazio una grande confusione, e al contempo un enorme vuoto. Balbettando, gli dissi che ero andato in quel bar per prendere un qualcosa che mi scaldasse. Lui, molto probabilmente incapace di nascondere l'eccitazione che provava, mi chiese se avevo voglia di scaldarmi in un altro modo. Normalmente, un ragazzino di sani principi avrebbe risposto di no, ma quello non era la risposta che avrei dovuto dare. Mi sarebbe piaciuto rispondergli di no, e restare tutto da solo con la mia bevanda calda tra le mani, ma quella parte di cervello che sembrava essere governata dal mio capo mi costringeva a rispondere in maniera affermativa. Alla fine, con sforzo interiore, risposi di sì, al che lui mi pagò il tè, lasciando dei soldi sul bancone. Dopodiché mi disse di seguirlo, fino alla sua macchina. Inizialmente mi sembrò strano che non si fece alcuna domanda, che non pensasse che tutto quello potesse essere anche di un minimo sospetto, ma poi, dopo mesi, arrivai alla conclusione che... fondamentalmente, cosa poteva importargliene? Aveva trovato una preda facile, forse pensava che io volessi farmi "catturare" di proposito. Non so, davvero. Non sono proprio in grado di immedesimarmi, anche per finta, in certa gente. Comunque, entrai nella sua macchina, molto probabilmente rubata, e il viaggio durò all'incirca una ventina di minuti. Venti minuti di puro terrore. Pur essendo superiore a lui in fatto di forza, avevo paura. Se fosse stato per me... Non l'avrei ucciso. Stavo per dire che l'avrei ucciso subito, ma in realtà non l'avrei ucciso. Io non sono nessuno per giudicare una vita umana, ma purtroppo sono costretto a farlo». Lo sguardo di Akai nei confronti di Aaron si fece più intenso: era molto preso dal suo racconto. «Arrivati a quella che sembrava la sua abitazione, scendemmo dalla macchina, e nel breve tragitto dal veicolo alla porta d'ingresso, il target si avvicinò a me e mi mise la mano sulla spalla. Mi venne da sobbalzare, ma tentai di contenermi. Continuavo con la lettura dei suoi pensieri, avrei dovuto smettere di farlo, perché in testa non aveva altro che pensieri sporchi sulla mia figura. La cosa... mi infastidiva. Una volta entrati in casa, mi fece fare un breve giro per sfoggiarla. Effettivamente era molto bella, ma chissà con quali soldi l'aveva comprata. Magari non era neanche sua. Comunque, mi chiese se un drink fosse di mio gradimento. Non lo era. All'inizio tentai di rifiutare, ma fu inutile. In un modo o nell'altro mi costrinse, arrivando a mettermi con le spalle al muro, letteralmente. Da parte tua, Akai, non sarebbe bizzarro escludere un pensiero del tipo "Come fa un Senshi a farsi mettere spalle al muro da un "comune essere umano"?". In realtà, aveva tutto a che fare con lo stato d'animo di entrambi: il mio era debole, il suo era forte, focoso, oserei dire. Inoltre, dovevo mandare avanti la missione, il mio capo aveva bisogno di informazioni che quell'uomo possedeva, non potevo deluderlo». Akai guardò per tre lunghi secondi alla sua sinistra, con occhi tranquilli. «Inevitabilmente, il mio volto divenne ancora più rosso e lasciai trasparire un'emozione molto simile alla paura. Non sapevo neppure se fosse effettiva paura. Inutile dire che questo mandò ancora più in estasi il mio target. Ricordo ancora il sorriso che mi fece: sembrava un assassino che sorrideva in modo malefico dopo aver eliminato il suo più acerrimo nemico. Poi, per tentare di tranquillizzarmi, mi accarezzò il collo, in modo soave. A me vennero i brividi. Alla fine, mi trovai costretto a bere due bicchieri di un super alcolico. Quella fu la prima e ultima volta che le mie labbra sfiorarono un liquido alcolico. Non ricordo cosa fosse, ma il sapore era molto forte, mi sentivo la gola e il petto in fiamme, mi veniva da vomitare, iniziava a girarmi la testa. Il suo intento era quello di farmi ubriacare un pochino, in maniera tale che potessi essere più sciolto. Beh, il suo piano riuscì: iniziavo a non prestare più di tanta attenzione su quale parte del mio corpo posizionava le mani, tutto questo perché ero impegnato a trattenere il senso di nausea. Prima che me ne accorsi, la sua mano giunse fino alle mie parti intime, e quando mi spostai leggermente per fargli capire che avrebbe dovuto togliermela, lui iniziò a palpare in maniera più insistente quel punto, facendomi chiudere gli occhi a forza. Stava davvero succedendo, non volevo che accadesse in circostanze simili. Feci un gemito affinché lui capisse che quel tipo di approccio non mi piaceva, ma poco dopo il suo enorme corpo si trovò contro il mio. In quel momento, mi trovai nuovamente con le spalle attaccate ad una fredda parete, mentre il suo bacino faceva una forte pressione contro il mio. Ormai era chiaro: il suo corpo desiderava ardentemente il mio, ma dalla mia parte, questa frenesia non era ricambiata». Gli occhi di Aaron stavano iniziando a diventare lucidi. Tuttavia, essendo che quegli occhi fragili erano coperti dai suoi capelli dorati, quel suo delicato lato non fu più di tanto percettibile al ragazzo dagli occhi dello stesso colore del sangue. «Non sapevo proprio che fare: le mie braccia erano ferme a mezz'aria, cercavo di riprendermi, ma l'effetto di quell'alcolico era ancora in circolazione. Iniziavo a sudare, mi sentivo il corpo in fiamme, il mio respiro divenne affannato e le mie guance erano dello stesso colore di un pomodoro. Anche il modo di respirare del mio target stava diventando pesante, e in quel frangente, mi sussurrò qualcosa all'orecchio. "Ti stai riscaldando, non è vero?". Mi disse questo. Appena sentì quelle parole, mi venne spontaneo spalancare gli occhi. Mi vennero in mente le parole del mio capo, il fatto che ero nel vivo della missione e che avrei dovuto venire a conoscenza di informazioni a lui utili, ma per farlo, avrei dovuto passare attimi indesiderati con quell'uomo. Non... non ressi, così, di scatto, lo allontanai e lo mandai dall'altra parte della stanza. Il mio respiro non si era ancora calmato. Fui terrorizzato. Lui si alzò, chiedendomi cosa mi avesse preso e, poco dopo, iniziò ad imprecare. Fu in quel momento che presi la decisione di porre fine alla sua vita, sovraccaricando i suoi pensieri, facendogli esplodere la testa. Nel momento in cui presi la decisione di ucciderlo, decisi anche che quel tipo di missioni sarebbero state completamente inadatte ad un tipo come me». L'attenzione del ragazzo dai capelli neri fu attirata dal fatto che la ferita sulla sua mano non c'era più, o per  meglio dire: si era rimarginata. Akai aggrottò leggermente le sopracciglia. Certo, quella non era una ferita grave, non gli procurava nemmeno dolore, solo un po' di prurito, però, il fatto che si fosse già rimarginata... gli parve davvero molto strano. Per giusto qualche secondo, Akai si dimenticò che di fianco a lui sedeva il ragazzo proveniente dal Canada.
Aaron sospirò pesantemente, in segno di aver condiviso con un'altra persona ciò che neanche il suo superiore sapeva. Per lui, quello era stato un passo per nulla indifferente, considerata la sua timidezza. Dopo uno scomodo silenzio, il biondo disse: «Non so te, Akai, ma, come ti ho detto, io non mi definisco nessuno per giudicare una vita altrui, per quanto questa possa essere nociva per l'esistenza altrui. È come se noi Senshi avessimo questo dovere, ma in fin dei conti, a nessuno di noi piace veramente questo stile di vita. Noi non siamo altro che armi umane, le armi umane delle persone che ci controllano e che giudicano le vite altrui credendo di esserne degni. Posso chiederti cosa ne pensi tu di questo? Ho parlato a lungo, magari ti ho anche annoiato... Se dovesse essere così, mi scuso per essermi appropriato del tuo tempo». Sorrise, e poi guardò Akai.
Lo sguardo di quest'ultimo ritornò sul suo compagno di squadra e poi, dopo aver tirato su col naso, si inumidì le labbra con la lingua. «Anch'io la penso come te. Anche la persona più stupida e distratta del mondo capirebbe che non siamo altro che schiavi. Schiavi, armi umane, per me è la stessa cosa. In cambio di un tetto sotto cui stare ci fanno diventare di loro proprietà, tu come la chiameresti una cosa simile?». Akai guardò Aaron servendosi dell'occhio sinistro, visto che il destro era coperto dai capelli. Aaron non rispose. A quel punto, Akai continuò a parlare. «Come avrai sicuramente intuito dai miei pensieri, uccidere qualcuno mi dà un brivido di piacere. Non so se questo fa di me un essere di cui avere paura», disse, guardandosi la mano su cui poco prima era presente la ferita. «In ogni caso, non era proprio il mio sogno fare strage di criminali che il mio capo ritiene inopportuni per il bene di questo mondo. Una volta mi sono ritrovato a parlare proprio di questo con un mio target, poco prima che lui morisse. In realtà, stava già morendo, bagnato da una grande pozza di sangue, però trovò la forza di pormi una domanda. Mi domandò come io fossi in grado di uccidere in maniera così leggera». Adesso era Aaron ad essere interessato al suo racconto. «Non gli dissi quello che pensavo veramente. Mentii, raccontandogli la solita frottola da quattro soldi, la tiritera che a lungo andare negli anni ho memorizzato. In parole povere, gli dissi che era quello il mio dovere, uccidere criminali la cui esistenza risulta dannosa per le persone che li circondano. Dalla mia bocca uscirono anche parole riguardanti l'organizzazione che mi teneva sotto controllo, sulla mia identità da Guerriero. Fu come togliersi doppiamente una maschera. Due delle tre maschere che coprono il mio volto. Comunque, nella stanza non erano presenti videocamere o microfoni, infatti ricordo che non fu necessario recitare a lungo». Akai sbuffò, sembrava che stesse facendo uscire dalla bocca il fumo di una sigaretta immaginaria, ma in realtà lo fece per spostare il ciuffo davanti al suo occhio destro. «E comunque, il tuo racconto non mi ha in alcun modo annoiato, al contrario, mi è interessato molto. Ti ringrazio per aver condiviso con me ciò che hai vissuto», aggiunse, accennando un sorriso che fece arrossire Aaron.
Anche il ragazzo canadese era rimasto colpito dal breve racconto di Akai, dal fatto che il suo punto di vista coincidesse col suo, e in particolare dalla frase: ''due delle tre maschere che coprono il mio volto''. Quindi, rimane ancora una maschera che avvolge non solo il suo volto, ma anche la sua anima... Chissà cosa si nasconde lì dietro, pensò, portandosi due dita sulle labbra.
Tra una parola e l'altra, i due continuarono a dialogare, scoprendo mano mano vari aspetti del carattere dell'altro, mantenendo però un tocco di misteriosità e un certo distacco dovuto all'imbarazzo e alla situazione.

Passarono le ore, Akai e Aaron stettero tutta la notte seduti l'uno di fianco all'altro, e poi il cielo iniziò a schiarirsi, lasciando spazio ai primi raggi solari.

Ore 08:32, i Senshi escono dal tratto di boscaglia appena dopo il lago Mizumi, e tenendo un passo veloce per un paio di minuti arrivarono ai piedi delle altissime e appuntite montagne Sangaku. Come disse Higuma: ''Una sfida molto allettante per gli scalatori più esperti e temerari''.

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