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I dipendenti di Higuma cercavano di fargli riaprire gli occhi. Il loro capo era steso a terra, privo di sensi. Alcuni si erano permessi di dargli dei leggeri schiaffi, ma niente pareva funzionare.
Higuma, dopo aver visto l'elicottero precipitare, aveva iniziato a lasciar andare il suo corpo, affinché toccasse il pavimento rivestito interamente in moquette. Aveva ripetuto il nome del ragazzo che aveva cresciuto per molte volte. Se lo disse nella mente pochi attimi prima di chiudere gli occhi, e adesso se lo stava ripetendo a occhi chiusi.
Akai... Akai...
Non solo ne ripeteva il nome, ma ne vedeva anche l'immagine. Prima di perdere i sensi, a Higuma passarono davanti tutti i momenti con Akai, da quando lo aveva visto per la prima volta, fino all'ultimo — e primo — abbraccio.
Si ricordava tutto. "È molto insolito vedere un bambino con degli occhi come i tuoi", gli disse la prima volta che lo vide. Un bambino vivace avrebbe sorriso, un bambino timido sarebbe arrossito, ma quel bambino non disse o fece nulla. Guardava a terra già da prima, e continuò a farlo anche dopo la frase da parte del suo futuro capo.
Higuma gli aveva dimostrato disponibilità sin dal primo sguardo. La prima volta che gli chiese il nome, Akai non rispose. La seconda neanche. Glielo disse solo alla terza, quando Higuma gli mostrò la sua camera da letto all'interno dell'edificio.
Adesso che ci pensava bene, il giorno del loro primo incontro, Akai aveva uno sguardo molto scosso. Sì, se lo ricordava. In realtà, ci aveva fatto caso la prima volta, ma non gli chiese nulla a riguardo. "C'è voluta una giornata per sapere il suo nome, figurati se gli vado a chiedere perché ha quello sguardo", pensò quella volta.
Come dimenticare di quando, una volta cresciuto e abituato alla sua presenza, Higuma disse ad Akai la vita che avrebbe fatto...
Il ragazzo — anzi, ragazzino all'epoca — non disse nulla di negativo. No, non disse nulla affatto. Fu semplicemente d'accordo con il suo capo. Higuma aveva sempre pensato che Akai fosse nato per questo stile di vita; uccidere la feccia che circonda il mondo. Le cosiddette persone di merda, che pur non meritandosi niente dalla vita, posseggono fin troppo. Persone che hanno in mano la vita di altre, che abusano del loro potere, che lo usano per far del male ai più deboli. Higuma non aveva mai sopportato queste cose. Forse neanche Akai? Non lo sapeva. Non aveva mai parlato con lui di argomenti come questi. Ad Akai non importava nulla. Aveva sempre eseguito gli ordini del suo capo, senza domandarsi se questi avesse ragione o meno. E poi... si divertiva ad ammazzare qualcuno quasi ogni giorno. Era divertente. Gli dava una scarica di adrenalina pazzesca. Alcune volte era come una droga. Higuma non poteva dimenticare di quando Akai fece ritorno dalla sua prima missione, che includeva un omicidio. Si pietrificò davanti a lui. Per anni lo aveva visto apatico — aveva mostrato dei lievi accenni alle emozioni pochissime volte —, ma in quel momento gli sembrava di avere davanti agli occhi una persona completamente diversa. Come se fosse rinato. Era pieno di sangue, la lama del suo coltello era diventata rossa. I suoi occhi erano spalancati, le iridi molto più luminose del solito, la testa lievemente piegata da un lato — si notavano anche dei leggeri tic — e per concludere un sorriso da psicopatico.
Ancora, disse, voglio rifarlo... E ci accompagnò una risata.
Fu in quel momento che Higuma comprese che quel ragazzo avrebbe avuto bisogno di qualcuno al suo fianco, per controllarlo. Fu in quell'occasione che spuntò Rick. Fortunatamente, Akai lo aveva preso in simpatia. Non lo aveva più visto in quello stato. C'era andato vicino altre volte, ma mai come la prima... Per la prima volta, Akai aveva dimostrato interesse in qualcosa.
Era andato troppo avanti con i ricordi. Aveva saltato tutta la fase dell'allenamento, di quando lo aiutava a controllare il suo potere, le varie prove che facevano con esso e con il coltello. Fu Higuma ad insistere perché lui usasse un coltello in combattimento. Fu lui ad insegnargli come muoversi velocemente e come usare il coltello in maniera perfetta. All'età di tredici anni, Akai era già un assassino esperto. Da una parte per l'allenamento a cui lo aveva sottoposto Higuma, dall'altra per il suo talento nel combattere. Lui non era un normale essere umano, e Higuma se n'era accorto quando aveva visto i suoi occhi per la prima volta.
Due mesi dopo la sua prima missione, Higuma domandò ad Akai cosa ne pensasse della sua nuova vita. Akai sorrise, ma non di gioia. Gli rispose che era fantastica. Era bello uccidere chi se lo meritava. Higuma fu abbastanza felice di quella risposta. Però si domandava se avesse fatto bene a far fare quello stile di vita a quel ragazzo... Sicuramente non avrebbe potuto vivere una vita normale come gli altri. Lui stesso non era normale. Alcune volte ci pensava, e gli dispiaceva. Però... questa era l'unico stile di vita che potevano condurre. Non ce n'era un altro. Se nessuno li avesse controllati, avrebbero finito per distruggere il mondo. Sì, era la soluzione migliore per loro.
E adesso... il ragazzo che aveva cresciuto, addestrato (avrebbe voluto aggiungere "trattato come un figlio", ma quale padre avrebbe fatto vivere uno stile di vita del genere al proprio figlio?) e preparato ad ogni tipo di evenienza era morto. Con lui anche tutti gli altri. Che fallimento, si disse in sogno. Che cosa dirò agli altri? Sono... solo un povero fallito.
Improvvisamente, l'immagine di Akai sparì dai suoi pensieri, come se si fosse dissolto nell'aria, e sentì come se un'onda lo avesse travolto.
Aprì gli occhi, si alzò di soprassalto. La prima cosa che sentì fu il suo respiro affannato. Vide in maniera sfocata le sue mani, che teneva davanti al volto, come per proteggerlo. Poi, quando la sua vista iniziò a tornare, vide anche le sue gambe, e sotto di esse la moquette rosso scuro del quartier generale. Successivamente, le sue orecchie ripresero a funzionare, facendogli sentire delle voci attorno a lui.
Higuma, come stai? Ti senti meglio?
Piano piano, iniziò a mettere a fuoco anche i volti davanti a lui. Li riconosceva, erano i suoi sottoposti. Vide anche una persona vestita in modo diverso. Una ragazza. Era Meiko, la cameriera. Aveva le mani davanti alle labbra e sguardo preoccupato. Higuma iniziò a ricordare tutto. Akai. Senshi. Elicottero. Arpie. Realizzò che il suo volto e metà della sua camicia erano entrambi bagnati. Qualcuno doveva avergli buttato dell'acqua sul viso per farlo risvegliare.
Higuma appoggiò una mano per terra, e fu come se una persona anziana, debole, incapace di ragionare, si fosse mossa. Tutti erano pronti a reggerlo, in caso fosse svenuto di nuovo.
Il capo sembrava ubriaco, a livelli estremi. Il suo sguardo assente fissava qualcosa vicino alla sua gamba.
Akai...
Nessuno parlava, le domande erano temporaneamente finite. Aspettavano che lui dicesse qualcosa. Magari non ricordava niente di quel che era successo poco prima. Invece no, ricordava tutto. Nella sua mente rivedeva quella scena ripetutamente. Nonostante cercasse di rimuoverla, non ci riusciva. Prima quella, poi Akai, poi gli altri Senshi. Aveva tutti sulla coscienza. Che cosa avrebbe detto ai suoi colleghi?
Un dipendente, che sembrava il più giovane tra tutti, non riuscì più a sopportare quello straziante e scomodo silenzio, così decise di chiedere al suo capo come si sentisse.
A Higuma, quando analizzò la domanda — ci vollero un paio di secondi —, venne da ridere. Che cazzo di domanda è? Scontata. Irrispettosa. Inutile. E chi più ne ha più ne metta. Sto di merda, come voglio stare?
Gli occhi di Higuma si fecero lucidi, ma riuscì a trattenere le lacrime. La sua testa era piegata in avanti, come se fosse addormentato.
Fece per alzarsi, e tutti si fecero avanti per offrirgli il loro aiuto. Higuma prese una mano a caso, non stava neanche guardando. Nei momenti come quelli — non che li avesse già vissuti, ma aveva avuto dei momenti brutti nella sua vita — andava nel suo ufficio, e non accettava visite, neanche il minimo rumore quando era arrabbiato. Voleva andare lì. Quello era il suo mondo, il suo piccolo spazio dove poteva essere semplicemente lui. Chiusa la porta insonorizzante, sarebbe stato tutt'uno con i suoi pensieri, senza interruzioni o qualcuno attorno.
«Portami nel mio ufficio...», disse, a qualche suo sottoposto, con tono assente e sguardo da cane bastonato.
«D'accordo», disse il ragazzo che lo reggeva.
Gli altri dipendenti non lo seguirono, conoscevano abbastanza bene il loro capo. Sapevano che desiderava stare da solo, avvolto da quelle quattro mura. Lo lasciarono andare.
Sembrava che quel dipendente stesse aiutando una persona ubriaca a spostarsi, perché Higuma non aveva neanche la forza di fare un passo. Sembrava la classica camminata che ha un personaggio di un cartone animato quando è triste.
Arrivarono davanti alla porta, Higuma si aggrappò alla maniglia con molta forza. Disse al ragazzo di lasciarlo lì, e questi eseguì il suo ordine. Perché la volontà del capo era un ordine.
Higuma entrò e chiuse la porta a chiave. Le tendine erano già chiuse, la stanza era buia e fresca. Finalmente solo.
Mentre si avvicinava alla scrivania, si mise le mani tra i capelli e li afferrò con forza, sembrava volesse strapparseli. Gli si formò una smorfia sofferente in viso e rapidamente sbatté entrambi i pugni sulla scrivania, vicino alla sua tastiera, facendo volare dei capelli nelle vicinanze. In quegli ultimi giorni, quella scrivania aveva ricevuto troppi pugni. Avrebbe ceduto presto.
In poco tempo, delle piccole gocce iniziarono ad atterrare sui pugni di Higuma. Erano le sue lacrime. Appoggiò la fronte sui pugni, iniziò a singhiozzare come un bambino.
Io... volevo proteggerlo... e invece ho finito per ucciderlo. Ingiustamente si stava dando la colpa. Adesso non pensava più che quella fosse una missione necessaria, che tutto quello che aveva organizzato fosse indispensabile. Pensava solo al fatto che lui li aveva fatti andare in elicottero, lui aveva convinto i capi a far venire i loro Guerrieri in Giappone, la sua mente gli stava dicendo che tutto questo era successo per colpa sua.
Forse sarebbe stato meglio non fare nulla, lasciare che Kaneshi prendesse Akai, e con lui il suo potere. Avrebbe ucciso tutti gli esseri umani, ma almeno, in questo modo, sarebbe potuto andare via da questo mondo con Akai. Akai... Solo il pensiero delle lettere che formavano il suo nome lo faceva stare mille volte peggio. Nella stanza era presente una finestra, magari...
Higuma si sedette, si passò bruscamente la manica della camicia sulla parte inferiore del viso, per asciugare il muco che gli bagnava le labbra. Con i polsini della camicia si asciugò le altre parti bagnate del volto, ma per quanto cercasse di asciugare le lacrime, esse rifacevano la loro comparsa in maniera ancora più esagerata.
Non riusciva a stare fermo. Doveva fare qualcosa. Ma cosa? Cosa avrebbe potuto spaccare? Avrebbe potuto ribaltare la scrivania. No, ci sarebbe stata poca soddisfazione. Prendere a pugni il monitor non sarebbe stato male. In questo modo avrebbe potuto sfogare tutta la sua rabbia e la sua disperazione in dei potenti pugni. Inoltre si sarebbe anche ferito le mani, ottimo. Cosa sarebbe stato un piccolo taglio sulle nocche? Per un attimo tutto si fermò, Higuma rimase immobile. L'unica cosa che era ancora in movimento erano le sue lacrime, che proprio non ne volevano sapere di fermarsi. Ma a cosa stava pensando? Pensava davvero che prendere a pugni degli oggetti sarebbe bastato per sfogare tutta la rabbia e la disperazione che provava nell'aver perso... Sarebbe stato irrispettoso nei confronti dei buoni genitori dire "figlio".
Rimase immobile, con sguardo assente puntato verso la parete. Non si era mai fermato ad osservarla bene. In genere, quando stava in quella stanza svolgeva il suo lavoro, mantenendo costantemente gli occhi sullo schermo del computer. Guardava davanti a sé, ma solo quando doveva annunciare una missione ad Akai. Il ragazzo dagli occhi rossi, seduto sulla sedia in posizione scomposta, con sguardo annoiato ma allo stesso tempo penetrante... Comunque, anche se non si vedeva molto, era sempre contento quando gli veniva assegnata una missione. Portava a termine tutti i compiti che gli venivano assegnati in maniera impeccabile. Era straordinario. Era unico. Aver perso una persona così... Higuma si lasciò andare a peso morto sulla sedia. Normalmente, un capo avrebbe pensato: "Ho perso un Guerriero eccezionale. I suoi poteri erano superiori a quelli degli altri. Adesso sarò un passo indietro rispetto ai miei colleghi". La "politica" di tutte le organizzazioni diceva chiaramente di non affezionarsi ai Guerrieri. Ma com'era possibile? Solo persone senza cuore riuscirebbero ad eseguire una simile legge. Come puoi non affezionarti dopo che hai visto il tuo ragazzo, o la tua ragazza, crescere? Vederlo diventare sempre più forte, vederlo nella fase dell'adolescenza (adolescenza che non sarebbe mai stata come quella degli altri ragazzi), vedere il suo volto ogni giorno... Pensare al fatto che sei stato tu a salvarlo. Per Higuma, la politica delle organizzazioni poteva andare all'inferno.
Il capo lasciò che la sua testa penzolasse in avanti — non aveva neanche la forza di alzarla.
Non pensava a quel che sarebbe successo dopo, cosa ne sarebbe stato delle organizzazioni o della sua vita futura. Non c'erano molte preoccupazioni riguardo questo però. Higuma aveva sempre avuto la mente di una persona saggia. Sin da piccolo era sempre stato lui il leader del suo gruppo di amici. Quando questi iniziavano una disputa, che molto spesso finiva in un litigio, interveniva Higuma, che con la sua diplomazia riusciva a far calmare le acque e far dialogare gli amici in maniera pacifica. Alcune volte gli sembrava che fossero dei poppanti. Allora avevano undici anni, e i suoi amici si comportavano come tali, ma lui aveva la mentalità di un ragazzo da poco maggiorenne. Guardava sempre avanti. Per questo, era molto ammirato e desiderato dalle ragazze. Nonostante queste gli stessero costantemente attorno, lui non sembrava interessato. In realtà lo era, gli piacevano le ragazze, ma dimostravano poca intelligenza. Sicuramente i pensieri erano più "maturi" rispetto a quelli dei suoi amici maschi. Non parlavano solo ed esclusivamente di giochi, si interessavano anche all'amore. Okay, per l'intelligenza avrebbe potuto dargli almeno tredici anni. Ma la sua rispecchiava quella di un ventenne. Ecco perché non aveva mai sfiorato una ragazza prima dei diciannove anni. Anche alle superiori, nessuna pensava ad una relazione seria, tutte al sesso. Solo ed esclusivamente al sesso. Per carità, anche Higuma lo pensava, ma non era quello l'argomento al centro dei suoi pensieri. La sua prima ragazza la ebbe appunto a diciannove anni. Lei aveva una mentalità simile alla sua. Era una delle più intelligenti in tutta la scuola, diceva che sarebbe voluta andare all'università, per studiare ingegneria. Higuma non aveva gusti per quanto riguardava l'aspetto fisico, non era quello che gli importava. Ciò che era all'interno della mente della ragazza lo incuriosiva e lo invogliava a stare con lei. E fu anche per questo motivo che ebbe poche ragazze (non più di tre). Poi, ad un certo punto della sua vita, interruppe tutto per concentrarsi sul lavoro, un lavoro molto faticoso che richiedeva delle abilità mentali incredibili. Il lavoro che svolgeva prima di assumere il ruolo da capo di quest'organizzazione. Lui... non si era mai pentito di niente, tranne del suo vecchio lavoro. Aveva sempre trovato sciocche le persone che pensavano: "Vorrei avere una macchina del tempo per tornare indietro e rimediare ai miei errori". Lui era una persona che pensava prima di agire. Pensava molte cose, ma in maniera chiara e veloce. Ma per quanto ci avesse pensato prima di imboccare la strada dello scienziato, riusciva a pentirsene ancora oggi. Avrebbe tanto desiderato una macchina del tempo... Magari non solo per questioni legate al suo precedente incarico, ma anche per salvare la vita di Akai.
Alzò debolmente lo sguardo, puntandolo verso il vetro della finestra. Ancora quel pensiero. Fissava la città come se stesse guardando con sguardo perso il panorama dal finestrino di un aereo, con le cuffie nelle orecchie e il volume della sua canzone preferita al massimo. Ho sempre saputo prendere le decisioni giuste, non mi sono mai pentito di nulla. Perché adesso provo solo pentimento?
Mosse di poco lo sguardo e poi lo fermò su qualcosa. Fu sfocato all'inizio. Sembrava un vaso grigio. Un vaso grigio fuori da una finestra? Quando lo mise a fuoco realizzò che non era un vaso, ma una civetta. Una civetta... grigia. No... di ferro? Higuma non poteva saperlo, ma quella era la stessa civetta che lo ascoltò spiegare ai Senshi il suo piano per arrivare al castello di Kaneshi. La stessa che poi sparì in cielo, per poi riapparire nel paesaggio scuro e cupo ed appoggiarsi sulla spalla del suo padrone, il quale avrebbe riferito tutto al suo capo, ovvero Kaneshi.
L'animale di ferro guardava alla sua destra, ma poi, improvvisamente spostò la testa con uno scatto fulmineo e puntò gli occhi rossi su quelli tristi di Higuma. Sembrava che quegli occhi avessero potuto sparare raggi laser da un momento all'altro. Non erano assolutamente come quelli di Akai. Non erano umani. Due sfere di forma perfetta interamente rosse, come la sirena di un'ambulanza. I due si guardarono per degli attimi. Higuma avrebbe dovuto fare qualcosa, ma per la troppa tristezza che provava, non riuscì a realizzare a pieno che c'era un robot a forma di civetta che lo guardava da oltre il vetro della finestra. Se fosse stato in uno stato d'animo normale, avrebbe ricollegato subito che quella ferraglia aveva a che fare con Kaneshi.
Gli occhi della civetta diventarono ancora più luminosi, e cambiarono colore da rossi a bianchi. Quella fu l'ultima cosa che Higuma vide.

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