Irina Averin

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30. — A

Sin dalla tenera età, ero consapevole che all'interno di me ci fosse qualcosa che non andava. Ero diversa dalle altre bambine; come lo vedevo io, lo vedevano anche gli altri. Non mi sono mai sentita parte integrante di qualcosa: un gioco di gruppo, per esempio. Oppure di un coro di "tanti auguri" dedicato ad un festeggiato. Anche se la mia voce c'era, in quel coro, era più bassa rispetto alle altre, messa in ombra, tirata via. Nessuno mi sentiva, e questo perché io non ero in grado di esprimermi come volevo.
Però, io non sapevo cosa volevo. In verità non volevo nulla, non sentivo il bisogno di niente, non sapevo cosa si provasse ad avere il desiderio di volere qualcosa, qualsiasi cosa. Pur sforzandomi, riuscivo a provare poco, davvero poco. Talmente poco, che risultava quasi nullo.

Nell'estremo oriente russo, nelle vicinanze di alcune montagne, innevate ogni mese dell'anno, si ergeva un piccolo villaggio, il quale non disponeva di un nome, in quanto mancava di beni fondamentali per fornire una sana e pacifica vita. Inoltre, aveva un numero estremamente ristretto di abitanti. Per la precisione, le persone che ci abitavano erano solamente quarantotto. Non c'era da stupirsi di ciò, poiché era un caseggiato composto da quelle che a malapena si sarebbero potute definire delle abitazioni accoglienti. Quei quarantotto abitanti vivevano in delle capanne, fatte in legno duro e massiccio, alcune parti delle abitazioni erano rocciose, il tutto rivestito da pelli di animali selvatici.
Gli abitatori di quel villaggio estraneo al resto dell'umanità, dovevano convivere col glaciale freddo che invadeva l'intera zona. Anzi, a dire il vero, si erano oramai abituati a quel clima privo di vita. Di quelle quarantotto persone, erano solamente due a non patire quell'intensa aria fredda: Irina e Ivan Averin.

Mese di marzo, -8 °C.
Ricordo quel giorno, era un martedì.

Mi trovavo lontano dal mio villaggio: all'incirca 384,327 sažen' di distanza, ossia poco meno di un kilometro. Non era una distanza così elevata, però, data la zona e l'infinità di pericoli in agguato, sembrava davvero tanto. Specialmente agli occhi di una bambina di sei anni.
Mio padre mi aveva affidato il compito di raccogliere la legna, al fine di alimentare le fiamme del camino di casa, che teneva lui e mia madre al caldo. Mio padre mi aveva affidato questo compito perché mio fratello era occupato, e inoltre sapeva che sarei ritornata a casa senza neanche un graffio. E questo perché, dentro di me scorreva un potere immenso, che neanch'io mi rendevo conto di possedere. Ero ovviamente consapevole di averlo, ma non potevo certo realizzare quanto potesse essere distruttivo e forte. Anche perché, a quell'età, non avevo quasi mai bisogno di utilizzarlo.
Vidi un ramo abbastanza lungo e spesso, feci un paio di passi, intenta a raccoglierlo. Nonostante la neve mi coprisse quasi del tutto i piedi, non sentivo nulla. E questo non era dovuto al fatto che in quel momento indossassi degli scarponi e dei vestiti pesanti, che aumentavano il volume del mio corpo. Io non avevo bisogno di quei vestiti, io non soffrivo affatto il freddo. Sin dalla nascita, non ho mai percepito alcun tipo di calore, né quello corporeo, né quello affettivo. Non che l'affetto da parte della mia famiglia mi mancasse, però, per qualche strano motivo, non riuscivo proprio a percepirlo. Quando lo dissi per la prima volta ai miei genitori, loro furono onesti con me, e mi dissero che la motivazione si celava dietro al mio potere legato al ghiaccio. Mi dissero che non ero in grado di provare calore perché la mia anima era circondata da un duro strato di ghiaccio, e questo mi avrebbe portato a non provare quasi nessuna emozione. Comunque, dopo essersi accorti di essere stati un po' troppo schietti con me — all'epoca avevo quattro anni — tentarono di tranquillizzarmi, affermando che avrei poi trovato calore nella vita, se anche qualcosa di molto accennato. Magari, avrei trovato qualcuno che avrebbe saputo farmi battere il cuore, facendo sciogliere col suo calore lo strato di ghiaccio che lo avvolgeva. Poi sorrisero e mi dissero di stare tranquilla, e aggiunsero anche che avevo tutta la mia intera vita davanti, e che non avrei potuto sapere come sarebbe andata.
Giunsi dinanzi al ramo. Lo raccolsi e con forza fui in grado di spezzarlo, per poi metterlo nel cesto che tenevo dietro la schiena. Visto che il cesto era pieno, pensai di aver raccolto abbastanza legna, così mi affrettai a tornare verso il villaggio, seguendo le scie di ghiaccio che avevo lasciato sui tronchi, per evitare di perdermi.
Mentre camminavo sulla via di casa, lasciandomi alle spalle le impronte che avevo prodotto sulla soffice neve, ripensando alle parole dei miei genitori, pensai anche che molto probabilmente non ero l'unica della famiglia che si sentiva così, che aveva problemi con l'espressione delle proprie emozioni. Mi venne in mente l'immagine di mio fratello, i suoi occhi. Anche se poteva non sembrare agli occhi dei miei genitori e degli altri abitanti del villaggio, anche lui aveva un problema simile al mio. Però lui non era in possesso di un potere legato al ghiaccio o alla neve, eppure non soffriva il freddo. Aveva comunque bisogno di vestiti pesanti, che coprissero la sua pelle, però non necessitava di tutto ciò che l'altra gente del villaggio indossava per non cadere vittima del clima.
Poi, mi concentrai su di me. Io, che ero sempre stata circondata dalla freddezza in ogni sua sfumatura, nel passare degli anni me l'ero fatta come amica, come il classico amico immaginario che la maggior parte dei bambini ha. Alcune volte ci parlavo, perché da lei mi sentivo come compresa, ma in realtà non stavo parlando con nessuno, se non con me stessa. Gli altri non mi capivano in alcun modo, potevano solo immaginare. L'unico che forse avrebbe potuto comprendermi, era mio fratello, però non ci parlavamo mai. Quando cercai di parlarci, in passato, m'ignorava, oppure mi rispondeva come se fosse profondamente seccato dalla mia presenza, se non dalla mia esistenza. Ecco perché i nostri genitori ci hanno assegnato stanze separate, poiché anche loro si accorsero di questa particolarità, e inoltre vi era troppa differenza d'età perché potessimo avere una camera in comune. A me sarebbe andato bene; ma a lui non andava bene, per niente. Diciamo che, da un microscopico lato, potrei anche immaginare il perché. La sua stanza è interamente stipata da marionette di sua creazione. Amava le marionette, sembravano essere il suo unico interesse. Ma questo lo notavo solo io, perché avevo l'impressione che con gli altri facesse uso di un carattere estraneo, che non gli appartenesse, mentre con me assumeva il suo vero carattere, che in un certo senso, era simile al mio.

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