Irina Averin

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30. — B

Passarono i giorni, in una maniera che, all'epoca, mi parve infinitamente insopportabile. Percepivo ogni singolo secondo sulla mia pelle, il passare di un'ora sembrava il quadruplo dello stesso lasso di tempo.
Fui in grado di procurarmi da mangiare uccidendo degli animali selvatici col mio potere. Non disponevo di abbastanza strumenti per accendere un falò, e con quelle condizioni meteorologiche era praticamente impensabile farlo. Ma questo non era un problema, poiché il mio corpo era immune da qualsiasi veleno, e in automatico anche da malattie causate da batteri. L'unica cosa orripilante del cibo che mangiavo in quei giorni era il sapore, oltre che l'aspetto. Ricordo che i primi giorni non feci altro che vomitare; mi venne spontaneo. Poi però riuscii ad abituarmici.
Fortunatamente, non soffrivo la gelida temperatura della zona, altrimenti non sarei stata capace di superare neanche la prima notte.
Non sapevo come sentirmi nel vivere in quel modo, da sola. Era strano, potevo dire solo questo. Sicuramente il mio corpo avrebbe preferito di gran lunga la vita all'interno della capanna, con i miei genitori.
Chissà, forse era un bene non provare emozioni, poiché in casi come questo non avrei avuto né modo né tempo di lasciarmi andare a sentimenti negativi.

Senza alcun pensiero in testa proseguii con la mia avanzata verso il nulla e l'ignoto. Mi allontanavo sempre più dall'area in cui avevo abitato per tutta la mia — all'epoca breve — vita, passo dopo passo. Seppur avessi tentato numerose volte di scacciare l'immagine di Ivan dalla mia mente, quest'ultima continuava a ricomparire. Immaginavo in che modo avesse potuto uccidere tutti quegli abitanti. Solo in quel frangente mi soffermai a riflettere e a pormi una domanda: possibile che nessuno avesse tentato di difendersi? Come aveva fatto un ragazzino di dodici anni ad uccidere un numero così elevato di persone riuscendo a non fare alcun rumore e soprattutto ad uscirne indenne? (Certo, io non potevo essere sicura del fatto che Ivan ne fosse effettivamente uscito senza alcun graffio, però, non consapevole del perché, me lo sentivo). Ma no, forse mi stavo lasciando trasportare dai pensieri errati, mio fratello non poteva aver commesso un tale gesto. È arrivato un enorme animale selvatico e ha ucciso tutti, tranne me e Ivan. È arrivato un enorme animale selvatico e ha ucciso tutti, tranne me e Ivan. È arrivato un enorme animale selvatico... e ha ucciso tutti, tranne me... e Ivan... Ma allora come mai la sua camera era vuota? Se fosse stato davvero così, come avrebbe avuto il tempo di raggruppare quasi ogni oggetto all'interno della sua stanza per poi portarlo con sé? E poi, se l'autore di questo inspiegabile genocidio è un grosso animale selvatico, se ha ucciso tutti, anche chi si trovava all'interno della propria capanna, che ragione avrebbe avuto di lasciare me in vita? "È arrivato un enorme animale selvatico e ha ucciso tutti, tranne me e Ivan". Per quante volte me lo stessi ripetendo, non fui in alcun modo capace di convincermi.

Passai... non me lo ricordo, ad un certo punto persi il conto. Passai smisurati giorni all'interno di quella foresta morta e innevata, mi cibai dei pochi animali che la abitavano, ma ciò non fece bene al mio corpo. Difatti, dopo poco, cominciai a stare male praticamente ogni giorno e dimagrii in maniera piuttosto evidente.
Poi, un giorno, avvistai qualcosa che d'impatto mi parve insolito, poiché abituata alla continua vista di quegli alberi privi di foglie e coperti di neve. Non seppi dire immediatamente di cosa si trattasse, così continuai ad avanzare, tenendo lo sguardo fisso in avanti. Lentamente, mantenendo in viso la mia solita espressione fredda e apatica, aprì di poco gli occhi, quasi incredula. Ciò che stavo osservando era un piccolo paesino, infinitamente più esteso rispetto al mio villaggio.
Non mi sembrava vero. Stranamente — o forse per via della fame e per le condizioni del mio corpo — non esitai neanche per un istante ad avviarmici. Tuttavia, una voce maschile fece sì che io mi immobilizzassi.
«Ehi, tu». Rotai la testa verso sinistra. Quello fu il primo incontro tra me e lui. «Ti sei persa?».
Si trattava di un uomo che sembrava avesse una quarantina d'anni, con capelli d'un grigio che pareva essere ottenuto da una tinta, e stessa cosa si poteva affermare per la barba. Occhi color crema, abbracciati da delle rughe su quella pallida pelle. Lungo e ingombrante cappotto scuro con pantaloni larghi e scarponi da neve anch'essi di colore scuro.
Mentre mi porgeva in maniera tranquilla la sua grande mano coperta dal guanto, mi fece un sorriso. Sicuramente il suo intento era quello di rassicurarmi, ma ottenne l'effetto inverso.
«Resta fermo dove sei. Non ti avvicinare», gli ordinai, assottigliando lo sguardo. Immediatamente lui ritrasse la mano, con fare spaventato.
«No, no. Non ho cattive intenzioni. Non avere paura di me». Dopodiché ci fu del silenzio, e nel frattempo abbassò il volto e mi scrutò dal basso verso l'alto con occhi attenti. Quello sguardo... Poi si inumidì le labbra con l'ausilio della lingua. «Stai bene? Sei una bambina tanto graziosa, ma sei in delle condizioni a dir poco terrorizzanti». Io non gli diedi risposta, ero ancora in all'erta. «Non serve che tu me lo dica, perché sono più che certo del fatto che hai voluto avventurarti in questo bosco presa dalla curiosità, hai poi fatto un incontro con un animale selvatico e per scappare sei caduta e sicuramente ti sarai fatta molto male. Succede spesso con i ragazzini di questo paesino, quindi non c'è bisogno di sentirsi in imbarazzo per questo», mi disse, sorridendo. Anche se si stava dimostrando gentile, io non riuscivo a togliermi dalla testa una sensazione che avevo, su quell'uomo. All'epoca non avrei saputo dire con certezza di che cosa avrebbe potuto trattarsi, ma adesso sarei in grado di spiegarlo con precisione.
Di nuovo, non dissi nulla, mi limitai ad osservarlo. «Senti, se vuoi posso riaccompagnarti a casa. Tu dimmi solamente dove si trova la casa dei tuoi genitori e io ti ci riporterò senza troppi problemi. Sarò anche gentile: dirò loro di non darti una punizione troppo pesante», disse, con un accenno di ironia, mentre si metteva la mano di fianco alla guancia.
Nuovamente, io lo ignorai e avanzai di qualche passo, distogliendo lo sguardo dal suo viso.
«Quale interesse può avere un uomo nell'aiutare una bambina?», gli dissi, in maniera più che acida. Allora, l'uomo cambiò completamente espressione: glielo si leggeva in faccia che era rimasto male dal tono che avevo utilizzato.
«A questo punto mi vien da pensare che lei sia gravemente cieca, signorina», rispose, con voce ironica. Poi tornò serio: «Ritengo che nessun uomo della mia età possa restare indifferente alla visione di una bambina smarrita e che per giunta è nelle tue condizioni, che se non l'avessi notato sono alquanto pessime. E poi, credi che non sia giunto all'ipotesi che se sei stata capace di sopravvivere a questa foresta solo con qualche graffio, molto probabilmente hai qualcosa che ti contraddistingue dalle altre bambine?».
Mi fermai. Quelle ultime parole catturarono abbondantemente la mia attenzione. Improvvisamente affiorarono nella mia testa ricordi inerenti ad un paio di mesi prima, di quando mi trovavo nel mio villaggio. Io ho qualcosa che mi contraddistingue dalle altre bambine. Sì, è vero. Non era necessario esprimere tale pensiero a parole, in quanto si comprendeva con una semplice occhiata. Però quest'uomo era un estraneo, e di conseguenza non potevo capire cosa intendesse realmente, con quelle parole.
«Ripeto e capisco pienamente che hai tutto il diritto di non accettare il mio aiuto, ed è anche logico che la mia parola non abbia alcun valore per te, ma ti garantisco che non ho intenzione di farti del male». Dopo quelle parole, il suo sguardo era diverso: serio, come se stesse osservando un cucciolo di cane ferito e diffidente.
A quel punto mi fermai a riflettere: forse avrei dovuto seguirlo e vedere dove mi avrebbe portata e in che modo mi avrebbe aiutata. Nell'eventualità avesse infidi pensieri in mente, io ero in possesso del mio potere del ghiaccio con cui potermi difendere.
«D'accordo», gli risposi. «Però devo precisare che sono orfana, i miei genitori sono morti».
L'uomo assunse un'espressione disorientata.
«Ah. Ma tu da dove provieni?».
«Da un piccolo villaggio situato vicino alle montagne, verso quella direzione», dissi, indicando un punto indefinito, oltre la foresta.
«Mh, capisco. Ad ogni modo, mettiti questa», mi disse, mentre si tolse il grande cappotto e in seguito una giacca in pile.
«Non mi occorre».
«Però, sai, potrebbe essere sospetto vedere un uomo camminare con al suo fianco una bambina in condizioni discutibili, e ancor di più potrebbe esserlo se la bambina in questione, con questa temperatura così bassa, non portasse neanche una giacca». Lo guardai. Aveva ragione. «Questo cappotto è troppo lungo per te, non cammineresti bene. Mettiti questa giacca, è abbastanza pesante, dovrebbe risparmiarti qualche occhiata dalle persone. E poi, copre i tuoi abiti ridotti a brandelli», commentò, sorridendo.
Successivamente, indossai la giacca che lui mi diede e ne percepii il calore. Dopodiché ci avviammo verso il paesino, l'uno di fianco all'altro. Alcune volte, ripenso ancora a quel momento, e mi domando come sarebbe andata se fosse stato tutto diverso. La mia vita sarebbe stata totalmente diversa, forse non sarei riuscita a vivere fino a ventidue anni. Alcune volte mi dico che tutto questo è stata la fortuna più grande che potesse mai capitarmi. Una visione indubbiamente distorta, considerando il mio attuale stile di vita, ma onestamente preferisco questo ad un'esistenza costantemente in bilico tra la vita e la morte.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jun 30, 2023 ⏰

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