XVI

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Una volta tornato a casa, Giovanni non si sentiva di aver fatto la cosa giusta, come invece aveva pensato.
Era prosciugato, poteva percepire i sensi di colpa avvolgersi intorno alla sua coscienza e stringere forte.
A malapena era riuscito a salutare Deddy che lo aspettava con uno dei suoi soliti sorrisi sulla porta dell'appartamento.
Con la scusa di essere stanco, si era infatti rintanato subito in camera promettendogli che gli avrebbe fornito un resoconto dettagliato degli ultimi giorni la mattina seguente.
Ma disteso sul letto, non era riuscito a prendere sonno.
Ripensava a tutto ciò che aveva vissuto, il suo cervello si era buttato in un'analisi dettagliata di ogni singola parola che aveva pronunciato. Passava al vaglio ogni suo gesto, motivazione, riflessione.
Non riusciva a stare fermo, le dita delle mani che sul materasso suonavano un ritmo nervoso.
Girandosi per l'ennesima volta, si era accorto solo più tardi del foglio di carta che lo aspettava sotto il cuscino.
Si era tirato su , accendendo la luce sul comodino.
Aveva riconosciuto quasi immediatamente la calligrafia di Giulia.

Caro Sangio,
non so se ti può far piacere ricevere una lettera o se invece è una cosa che odi, ma sono costretta a scrivertela lo stesso. Perché credo che non sarei in grado di raccontarti tutto questo ad alta voce.

C'è stato un periodo in cui era la paura a governare qualsiasi cosa facessi. Era lei a dettare le cose che dovevo dire, cosa avrei dovuto indossare o dimostrare. Facevo di tutto per rientrare in quella sequenza ordinata di ragazze tutte uguali che alle persone sembrava piacere tanto. O almeno era quello che provavo a fare. Ma per quanto cercassi di assomigliare agli altri il più possibile, c'era sempre qualcosa che mi faceva uscire fuori da quei canoni. Che mi rendeva troppo riconoscibile, inadatta al contesto. E mi ero resa presto conto che tutto ciò che mi faceva distinguere non andava bene.
Ad esempio, all'inizio a non andare bene era il mio sorriso, con il solito spazietto fra i denti.
Poi non andavano bene i miei occhi. Marroni, banali.
Poi ancora era il turno dei miei capelli, o della mia pelle o del mio naso.
Coloro i quali si erano autoproclamati giudici della mia vita, non  salvavano niente.
Per loro non ero una persona allegra o solare ma fastidiosa e imbarazzante. Non ero una semplice ragazza con un sogno nel cassetto ma un'illusa, ridicola.
E lo ripetevano così spesso, usando qualsiasi mezzo avessero a disposizione nel proprio arsenale, che presto avevo iniziato a crederci anche io.
Così mi ero spenta, fatta piccola.
Quando mi veniva spontaneo ridere mi costringevo a stringere forte le labbra pregando che nessun suono venisse fuori. Quando invece in classe avrei voluto scambiare una battuta con gli altri, partecipare a ciò che stavano raccontando, rimanevo sul fondo, in silenzio.
Ogni volta che tornavo a casa pregavo mamma di chiamare il dentista: volevo mettere l'apparecchio.
Quando poi ,una mattina, lo aveva chiamato veramente e mi aveva detto quanto sarebbe costato, ho sentito quella speranza che custodivo gelosamente spegnersi una vota per tutte. Era una cifra troppo alta, non ce lo saremmo mai potuti permettere.
Più volte mi capitava di passare davanti allo specchio e non riconoscermi  più.
Dormivo poco e passavo le ore prima di andare a scuola a camuffare le occhiaie con il correttore e a nascondere le palpebre con la matita come avevo visto fare alle mie compagne di classe. Mi piastravo i capelli finché non erano perfetti come i loro.  Ogni volta che entravo in un centro commerciale non guardavo altro che le vetrine dei negozi le cui marche avevo visto sui loro cappotti, sulle loro scarpe.
Inutile dire che tutti i miei sforzi per trasformarmi in quella che molti avrebbero chiamato "una delle tante", erano risultati inutili.

Giovanni aveva dovuto smettere di leggere, arrivato a quel punto. L'inchiostro era sbavato, proprio sull'ultima parola. Quasi come se una lacrima avesse bagnato il foglio.
Solo dopo aver preso un respiro profondo, si era costretto a continuare.

Con il tempo ho imparato a convivere con l'idea che gli altri avevano di me, senza però mai affrontarla davvero.
Eravamo sul letto, qualche giorno fa, e tu mi hai chiesto di dirti una cosa che non avevo mai detto a nessuno.
Beh, ecco a te.
Non so neanche io perché ti ho raccontato tutto questo, e forse sarebbe stato meglio non averlo fatto o dirti tutto a voce ma le parole mi spaventano sempre e scriverle mi rende tutto più semplice.
Sento il tempo scivolarmi come sabbia fra le dita e per ogni giorno in cui mi tengo tutto dentro, una parte di me si abitua all'idea di dover continuare a far finta di nulla.
Ho paura che nella vita non mi ricapiti un'altra persona che mi capisca come fai tu.
Non serve che tu mi risponda.
Ovunque tu sia nel momento in cui leggerai questa lettera, spero tu stia bene e sia felice.
Giulia

Giovanni era a pezzi.
Non sapeva come aveva avuto la forza di alzarsi dal letto e raggiungere Deddy in soggiorno, che vedendolo arrivare tutto trafelato , doveva essersi spaventato.
Aveva infatti spento la tv, in attesa che dicesse qualcosa.
«Mi sa che ho fatto una cazzata.»

*

Ma quale criterio?, aveva pensato Giulia una volta sul letto.
Stava rivivendo nella sua testa ogni parola che Giovanni le aveva detto quel pomeriggio, ogni spiegazione che le aveva fornito e ancora faticava a trovare un senso.
Gli era solo parso molto impaurito.
Ma da cosa?
D'altronde, era lei ad essere alle prime armi in una situazione del genere. Lui invece già aveva fatto le sue esperienze.
Anche se la storia della musica non fosse stata una scusa, come invece pensava, avrebbe comunque rispettato la sua decisione.
Non poteva permettere che per colpa sua si trovasse in difficoltà nel fare quello a cui più teneva al mondo.
Lo capiva, in tal caso. Avrebbe fatto lo stesso anche lei.
O almeno così credeva.

Una lacrima sul viso Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora