XXVI

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Dopo essere tornati a Roma, rigorosamente su due treni differenti, i giorni erano volati via senza che nessuno dei due avesse provato a cercare l'altro.
Giulia, per evitare di pensare a tutto quello che era successo, aveva fatto in modo che la settimana che la aspettava fosse per lei piena di impegni.
Era una strategia di difesa che aveva affinato con gli anni.
Oltre alla decisione di portarsi avanti con lo studio che l'attendeva per l'esame di recupero di settembre, aveva messo in programma di spendere le restanti ore libere in accademia a ripassare quasi fino allo sfinimento le coreografie che avrebbe dovuto portare al saggio, tra un paio di settimane.
Aveva poi deciso di festeggiare il suo compleanno quel venerdì con una piccola cena a cui avrebbero partecipato tutti i suoi amici più stretti.
In realtà, quest'ultima era stata un'idea di Chiara.
L'amica era preoccupata. La conosceva bene e per quanto Giulia cercasse di fare finta di nulla, aveva capito subito che quello che stava mettendo in atto non era altro che un piano autodistruttivo.
«So che non ne vuoi più parlare, ma forse ti farebbe stare meglio.», aveva cercato di spronarla più volte.
La risposta di Giulia però era sempre la stessa.
Sto bene.

Era proprio in sala davanti allo specchio che aveva passato metà di quel nuvoloso mercoledì.

«Giulia? Sei ancora qui?»

Cinque, sei, sette, otto. Ancora una volta.

«Guarda che è tardi, forse è ora che tu vada a casa.»

La gamba deve andare più in alto, il salto più controllato.

«Ma mi stai ascoltando?»

Da capo.

«Giulia.»

Sbagliato di nuovo, quel giro faceva pena.

«Giù, basta.»

Cinque, sei, set—
Solo quando le dita di Samuele le avevano bloccato il braccio, Giulia era tornata alla realtà.
Mentre era impegnata a ripassare i passi che ormai conosceva a memoria, non si era accorta di un'infinità di cose.
Ad esempio non aveva notato che fuori aveva iniziato a fare buio.
Oppure che il suo amico Sam aveva appena fatto il suo ingresso nella sala.
E che le sue ginocchia stavano iniziando a cedere dalla fatica.
Solo una volta tornata a casa, vedendo i lividi, dolorante avrebbe finalmente riconosciuto di aver esagerato.
La verità era che per tutto il pomeriggio aveva viaggiato in uno stato di forzata insensibilità tale da non permetterle di fare altro che rivivere meccanicamente ogni passo.
Aveva il fiatone, il sudore le imperlava la fronte ed i capelli si erano ormai liberati dalla prigionia della coda.
«Ti fai solo del male così.»
I loro sguardi si erano incontrati attraverso il riflesso nello specchio.
«Non so cosa sia successo ma in questo modo non fai altro che permettere ti distrugga.»
Aveva ragione, ma non poteva dirglielo. Perché farlo avrebbe significato ammettere di stare male e questo avrebbe  infranto quell'unica promessa a cui si era aggrappata nel momento in cui aveva visto Giovanni lasciare l'hotel, qualche sera prima.
«È il tuo corpo, il tuo futuro. Non vale la pena trattarlo così. Per cosa, poi?»
Giulia non era ancora pronta a parlarne e Samuele la conosceva abbastanza bene da non insistere.
«Qualunque cosa sia successa, ritrova le tue priorità e tienitele strette, almeno finché quello che provi non si farà più sopportabile.»
Il respiro era tornato a farsi quasi regolare ma la tempesta che le agitava i pensieri era inarrestabile.
Non voleva sentire, non voleva fare i conti con niente di tutto quello che aveva dentro.
«Non riesco.», aveva sussurrato, la voce roca che ancora doveva ritrovare il suo suono per il poco uso che ne aveva fatto nelle ultime ore.
A quel punto, l'amico l'aveva presa per mano e fatta sedere davanti a lui, mentre prendeva a lavorare sui muscoli spossati delle sue gambe.
«Vorrà dire che ti aiuterò io.»

                                    *

A Giovanni i fiumi non erano mai piaciuti. Si chiedeva il perché dovessero scorrere così veloci, cosa li costringesse a travolgere qualsiasi cosa si permettesse di disturbare il loro passaggio.
Erano intolleranti, quasi tirannico il loro modo di fare.
Pensava a questo mentre se ne stava affacciato sul Tevere, a guardare danzare sulla sua superficie i riflessi di un sole pallido che lentamente stava perdendo la sua guerra con le nuvole.
Giovanni non si era mai sentito così capito.
Anche io distruggo tutto quello che incontro, avrebbe voluto urlargli.
Le mie parole sono la tua corrente, travolgono e marciano sopra le persone a cui tengo.
Neanche lui sapeva spiegarsi il motivo ma dopo essere uscito a fare un giro, si era ritrovato nello stesso luogo che, mesi prima, Giulia gli aveva indicato sorridendo.
«Vedi lì, SanJuan. Quella è l'isola Tiberina.»
Dopo aver costeggiato la banchina, aveva dovuto camminare un po' per trovare il punto che stava cercando.
«D'estate ci vengo sempre con mamma. C'è un punto in particolare dove ci mettiamo sempre sedute, ad osservare l'acqua che scorre da entrambi i lati. Se chiudi gli occhi, sembra di stare sopra una barca,giuro.»
Si era seduto sul marmo bianco, esattamente dove aveva detto lei. Circondato su entrambi i fianchi dall'acqua scura, la osservava fuggire veloce cedendo solo all' irremovibilità di qualche ramo.
Chiunque fosse passato di lì non avrebbe visto altro che un ragazzo come tanti, le cuffiette nelle orecchie e le scarpe slacciate.
Ed era proprio il fatto di aver abbandonato qualsiasi forma di riconoscibilità che aveva trasformato Giovanni in una semplice copia spenta di se stesso.
Chi lo conosceva bene, avrebbe facilmente interpretato l'abbandono dei suoi soliti colori in favore di una semplice maglietta nera–forse l'unica di quel colore nel suo armadio—come un evidente segnale che qualcosa in lui non funzionava come prima.
L'indecifrabile verità era che si trovava al sicuro, la terra salda sotto i suoi piedi, ma stava annegando tra i rimorsi di coscienza.
Mentre abbracciava le ginocchia nel disperato tentativo di farsi invisibile alle poche famiglie che ancora passeggiavano sul Lungotevere, stava facendo quello che gli veniva meglio: ripensare, analizzare, dissezionare ogni singolo dettaglio costringendosi a riviverlo dieci, quindici volte per trovare finalmente tutti gli errori ed i passi falsi che aveva commesso. Non facendo altro che colpevolizzarsi per ogni singola cosa che avrebbe potuto fare diversamente. In lui non c'era spazio per qualsiasi forma di indulgenza verso se stesso.
Sbagliare era semplicemente imperdonabile.
Ma soprattutto, quello che proprio non riusciva a superare, era il fatto di essersi messo nella posizione di dover convivere ancora una volta con le conseguenze delle sue azioni.
Dentro di lui era radicata la consapevolezza che avrebbe dovuto fingere per chissà quanto tempo che ciò che aveva fatto era stato scelto, meditato. Assolutamente controllato.
Si era ripromesso, tempo prima, di non farsi mai più vedere da nessuno in dubbio, insicuro o in balia degli eventi. Altrimenti era certo che appena avesse scoperto il fianco già ferito, le persone non avrebbero fatto altro che usare quella debolezza a loro vantaggio ricordandogli a vita della volta in cui non aveva avuto la forza di vincere la sua irrazionalità.
La quiete pensierosa di quella mattina era stata interrotta dalla suoneria del suo telefono, che aveva preso a squillare segnalando in entrata una chiamata di Deddy.
Anche quella mattina aveva cercato di evitarlo, sperando così di non dover più fare i conti con i suoi sguardi indagatori.
Da quando era tornato, tra le dita stringeva soltanto un'irrefrenabile voglia di stare da solo.
Non sapeva come spiegare ai suoi amici quello che era successo.
Sarebbe stato difficile far capire a chiunque quello che gli era passato per la testa nel momento in cui aveva spento l'interruttore e sputato fuori parole velenose che in realtà neanche pensava.
Gli era tornata in mente la scena di qualche mese prima quando invece che in una stanza d'hotel , aveva fatto in modo che le loro strade si separassero seduto al tavolino di un bar.
Aveva poi trovato la lettera sotto al cuscino e—
Un'idea l'aveva illuminato a quel punto.
Tirando fuori il taccuino che aveva in tasca, aveva iniziato a scrivere.

Cara Giulia,

La penna si era bloccata sull'ultima parola.
Cosa avrebbe dovuto dirgli?
Che era stato semplicemente uno stupido?
Oppure avrebbe dovuto rendersi ridicolo e chiederle direttamente di perdonarlo e dimenticare quello che era successo?
Gli sembrava tutto così immaturo ed inutile.
Per questo aveva strappato la pagina per poi gettarla con rabbia nel Tevere.
Mentre la guardava venire inghiottita dalla corrente, non si era sentito affatto meglio.
Sospirando aveva poi chiuso gli occhi, immaginando di navigare quegli agitati pensieri sulla stessa barca di cui Giulia gli aveva parlato.
Solo quando aveva sentito una goccia di pioggia cadergli sulla guancia, li aveva riaperti.
Il cielo piangeva per lui.

Una lacrima sul viso Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora