Una grossa delusione

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Roma, 20 marzo 1942

Il ritratto che era uscito di Richard Carter da parte di suo figlio aveva lasciato Iris con l'amaro in bocca: quell'uomo che lei aveva sempre sognato di incontrare era un debole, che non era riuscito ad osare per amore, preferendo una comoda vita coniugale già scritta, in America; il tutto mentre sua madre aveva passato la sua vita ad aspettarlo, beccandosi gli insulti e le malelingue di mezza San Felice Circeo.
Sicuramente la giovane Cataldo aveva ripreso da quest'ultima in quanto a coraggio: per avverare il suo sogno, aveva cambiato città, inseguendo un uomo che le aveva promesso una vita dorata e delle risposte sulle sue origini.
Ma col tempo Gianfranco Menotti, l'uomo che aveva scelto, le aveva fatto sempre più ribrezzo, specialmente da quando aveva cominciato a fare terra bruciata intorno alle minoranze: ebrei, comunisti, omosessuali, gente con disabilità; il fascismo non accettava differenze, e il gerarca sanfeliciano ne aveva sempre abbracciato quell'ideologia che non concedeva sconti.
Perfino Bernardo Levi, l'amico universitario di Luciana, aveva considerato l'idea che Roma non fosse più un luogo sicuro per sé e per la sua famiglia.
Voleva andarsene di certo, così come voleva andarsene Iris: se non avesse avuto ribrezzo del sangue, probabilmente sarebbe diventata una crocerossina, come Elsa, fuggendo nei luoghi più sperduti della Terra per aiutare i poveri disgraziati; oppure molto semplicemente si sarebbe trasferita in Abruzzo, vicino Cassino, per ricongiungersi con Rinaldo e spiegargli che non voleva lasciarlo, che ce l'aveva portato lei dopo che lui aveva spostato la sua attenzione su Giada.
La sua sopportazione si stava assottigliando sempre di più, e la sua insofferenza cominciava ad impattare sulla quotidianità in casa Menotti: Iris passava gran parte delle sue giornate a letto, e rispondeva sempre scocciata.
Anche Gianfranco iniziava a stufarsi di quella che era diventata una lagna, più che una donna.
<< Che fai, non ti alzi? >> le chiese in quell'ultima mattina d'inverno.
<< Non mi va >> rispose lei, con la voce impastata di sonno.
<< Che palle, Iris. È da cinque giorni che non ti va. Sarà mica per il fatto di tuo padre... >> sbuffò lui, che già non ce la faceva più a sopportare le lamentele della compagna.
<< Guarda che nemmeno ci pensavo, mi hai invogliato tu con questa storia! >> gli ricordò la ragazza, con i capelli biondi spettinati che le andavano sugli occhi.
<< Non pensavo che diventasse una malattia, ovvio >> si difese l'uomo.
<< Non lo pensavo neanch'io. Ma cazzo, si trattava di mio padre! E siccome non lo conoscevo, ho voluto capire chi era per davvero... >> argomentò l'altra.
<< E adesso che non era il prode cavaliere senza macchia e senza paura che ti aspettavi, ti devi seppellire viva? >> le rinfacciò il primo.
A quelle parole, la seconda scattò a sedere sul letto, come se una tarantola l'avesse morsa.
<< No, ma nessuno mi ridarà indietro il tempo che ho sprecato a crederlo una persona perbene! >> berciò.
<< Che vorresti dire? >> la sfidò Menotti.
La Cataldo moriva dalla voglia di dirgli che in quello spreco di tempo c'era compreso anch'egli, e che rimpiangeva l'anno e il giorno e l'ora in cui aveva deciso di seguirlo nella Capitale.
Ma non l'avrebbe presa bene: probabilmente l'avrebbe spedita di corsa in quei luoghi che i Tedeschi chiamavano lager, dove mandavano a morire chiunque non andasse loro a genio.
<< Niente, non voglio dire niente >> concluse quindi.
<< Perfetto. Allora rimettiti, che stasera c'è una cena dei più alti esponenti del partito e portano anche le famiglie. Fatti bella e vedi di non farmi sfigurare >> dichiarò allora il gerarca, lasciandola da sola nella camera da letto.
Iris lo guardò, sperando che una pallottola vacante lo prendesse appena metteva il naso fuori di casa: sarebbe stata la fine di tutti i suoi problemi.

Storia d'amore e di guerra - Il conflittoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora