Oh, Carolina creeks running through my veins
Lost I was born, lonesome I came
Lonesome I'll always stayC'è un dilemma eterno che affligge le menti umane dall'alba dei tempi. Chi siamo, perché siamo qui, Dio esiste? E che cos'è la realtà che ci circonda veramente? Siamo reali o solo frutto di questa realtà? Poco importa se a chiederselo siano stati re, filosofi o contadini. La domanda era ed è tuttora persistente.
Dal canto suo anche Pansy Parkinson se l'era domandato, ed era arrivata ad una conclusione piuttosto tragica. Siamo gli specchi delle realtà che viviamo, tetre e sanguinose riproduzioni dei nostri avi, crudeli e ansiosi e senza pietà. Siamo uguali ai nostri genitori, o siamo anche peggio, copie distorte e maleducate di un sistema fallito.
Pansy era lo specchio di Violet Blackthorn, anche se la odiava più di chiunque altro al mondo; crescere nella sua ombra e sopportare la sua educazione l'aveva resa come lei nonostante gli sforzi sovrumani che aveva fatto per non esserlo. Chiunque, inevitabilmente, diventa una copia sfatta di uno dei suoi genitori. È inutile negarlo o cercare di evitarlo, perché è così, irrimediabilmente e inevitabilmente, come il sole che sorge ad Est e tramonta ad Ovest. Pansy era stata cresciuta prevalentemente da sua madre, e ne incarnava perfettamente le peggiori caratteristiche. Se le sentiva fin sotto la pelle, nei meandri più nascosti delle sue carni, in ogni sua terminazione nervosa. Sentiva l'egoismo, il desiderio di potere e ascesa sociale, la passione, l'avarizia, la sete di denaro, tutti che confluivano nel suo cervello fino a schiacciarglielo.
Poi c'era quella voce nella sua testa che, crudelmente, ad ogni occasione le ripeteva:
«Sei come lei, sei come lei, sei come lei.»
Anche adesso, mentre inalava una striscia di cocaina nel bagno privato della sua bella stanza, sentiva quella voce sussurrarle ossessivamente nell'orecchio, rumorosa come una zanzara in una notte di pieno agosto. Era insopportabile.
Piccole stelle comparivano ai bordi del suo campo visivo mentre la sua mano destra, tremante, stringeva una banconota arrotolata. Lentamente l'euforia e la sicurezza si fecero strada nel suo cervello, inibendo la sua tristezza e facendole spalancare gli occhi per il piacere. Era come stare sulle montagne russe, percepiva in sé come l'inizio di una fase maniacale. Si guardò allo specchio quando ebbe finito, e si vide raggiante anche senza trucco. Le sfuggì un sorriso dalle labbra sottili e quasi si morse la lingua per l'eccitazione. Improvvisamente non vedeva l'ora che iniziasse quella giornata, così iniziò a truccarsi. Cosparse il suo volto di fondotinta a tono chiaro, definì i suoi zigomi con illuminante e blush rosa. Circondò i suoi occhi di ombretto neutro ed eye-liner nero, le dita che neanche percepivano il freddo del marmo del lavandino. Le sue ciglia erano cariche di mascara. Puntò lo sguardo su sé stessa e sulle pupille dilatate dalla droga, e rise di nuovo.
Quando fu pronta indossò la divisa, fumò una sigaretta e lasciò la stanza impregnata di catrame e nicotina. Non aprì la finestra e si diresse a lezione, gli stivali col tacco che lasciavano nei corridoi un'eco agghiacciante.
La voce della McGranitt, che normalmente l'avrebbe fatta morire di noia, sembrò svegliarla ulteriormente. Le sue parole arrivavano alle orecchie della mora in maniera distorta e allo stesso tempo lucida. Era all'apice della concentrazione e a quello del collasso, ma non riusciva a cogliere la sottile linea di contrasto tra le due cose. Tentò di prendere appunti, ma non le riuscì. Provava un'estasi dionisiaca che era fuori da quel mondo, come se avesse fatto un patto col diavolo e quel momento le fosse stato concesso al puro scopo di provare piacere.
Portò lo sguardo sui suoi amici, Draco e Blaise, seduti nei due banchi davanti al suo, e poi sul suo compagno di banco, Theodore Nott, raggiante con la divisa in ordine, ma la camicia stropicciata come i ricci castani. Le sfuggì un ghigno quando, come in un album fotografico, immagini fuorvianti delle notti passate con lui le passarono per la mente, nitide, cristalline. Poi guardò l'aula, bella e perfettamente in ordine, poco illuminata, la grande cattedra al centro come un trono, i banchi attorno come sudditi. Le piacque la longilinea architettura di quell'ambiente, la sua mente immaginava orli dorati e ghirigori anche laddove non ve n'era neppure l'ombra. Le sembrava di trovarsi in Paradiso, in un Cielo altissimo, prossimo alla divinità. Era un'illusione meravigliosa.
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I don't wanna die//Dramione
FanficDALLA STORIA: «Per un attimo, solo un attimo, ripensò a tutto ciò che aveva fatto e che stava per fare. Il Marchio Nero, l'omicidio, il prestigio di suo padre, la famiglia. Non riuscì a trovarvi un senso. Tutto accanto a lei perdeva valore, c'era s...