- LA FRECCIA -

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Il cielo si era oramai tinto di un intenso blu quando i sei ragazzi tornarono nel vecchio e freddo castello, laddove il silenzio con cui Azazel aveva già familiarità venne sostituito da leggeri rumori di sottofondo. Il pavimento scricchiolava, così come le porte in legno e le finestre, scosse dal vento freddo della sera. Le lanterne che decoravano le pareti non emanavano abbastanza luce da illuminare l'intera area, lasciando punti più tenebrosi e ombre dei mobili sul pavimento che, al passaggio degli abitanti della casa, si mescolavano con le loro. Gli altri avevano già raggiunto la sala da pranzo - occupata per lo più da un lungo tavolo - e il chiasso che facevano era così intenso da distrarre le orecchie di Azazel da quei rumori così inquietanti da rilassarlo. Stava attraversando ogni corridoio del castello, che paragonò ad un labirinto per quanto confusionario fosse, e stava osservando tutto ciò che li caratterizzava con la massima accuratezza, dai vecchi mobili impolverati ai tapis qom ruvidi e rovinati. Prestava particolare attenzione ai dipinti attaccati alle pareti, loro erano parecchio curati a differenza del resto della casa. Avevano un cartellino dorato a fianco, con su scritto nome e cognome di coloro che popolavano i ritratti. Ad Azazel non sfuggì di certo il fatto che tutti avessero lo stesso cognome, ma uno in particolare gli saltò all'occhio. Affiancava il quadro di William e quello di una certa Maria Sophie...

"Arthur Atkins"
11/07/1939 - 17/10/1992

Quel nome gli sembrava fin troppo familiare.
«È il padre del Signor Atkins. È morto tanto tempo fa per via di un'esplosione nel suo laboratorio». Azazel non si voltò verso la sua direzione, né si mostrò stupito... Aveva sentito i suoi passi lungo le scale e il silenzioso corridoio.
«Di cosa si occupava?» domandò.
«Non lo sa nessuno. Non ha mai parlato dei suoi esperimenti e i suoi appunti sono spariti prima della sua morte». Con l'eco di quel tunnel, il corvino riuscì a memorizzare meglio la tonalità della sua voce. Era profonda come il buco nero, intonata come le note di una chitarra accordata.
«Mh». Il silenzio calò ancora. Azazel rimase con lo sguardo immobile e impassibile sulla piastrina con su scritto il nome, e Bryan cercò in tutti i modi di capire cosa gli stesse passando per la testa. Si arrese dopo pochi secondi, consapevole di non poter leggere una pagina vuota come lui.
«La cena è pronta».
«Non ho fame.» annunciò Azazel, in una risposta lampo.
«D'accordo... Buonanotte, allora».

~

Azazel aveva preso già confidenza con il balcone della sua camera. Ad abituarsi ad un ambiente ci metteva davvero poco, soprattutto se includeva un panorama freddo e tenebroso come quello che aveva davanti. Si sentì sollevato quando notò che gli alberi, nonostante la loro grandezza, non riuscissero a coprire il cielo stellato... Ancora una volta, la luna avrebbe potuto tenergli compagnia. Silenziosa e solitaria, ascoltava ogni suo pensiero e lo guardava negli occhi per leggerlo. Si rifletteva in essi, illuminando così le tenebre delle sue iridi. Era attenta ad ogni dettaglio, che evidenziava con la sua tenera luce, come la cicatrice che attraversava il suo occhio quasi completamente cieco. Odiava quella cicatrice, a tal punto da non riuscire a guardarsi allo specchio senza provare un forte sentimento di... Non sapeva nemmeno di cosa. Gli ricordava un passato che sperava solo di dimenticare, compreso colui che l'aveva frammentato a tal punto da eliminare la sua vera essenza. Ogni pezzo raccontava qualcosa di lui, qualcosa che lo aveva reso ciò che aveva sempre odiato.
«Non ti sei presentato.»
Quella temibile quiete si spezzò come la corda di una chitarra torturata da dita incallite, tagliata dall'affilata voce che Azazel aveva già impresso nella sua mente. Girò il viso, ma senza spostare i gomiti dalla ringhiera in pietra, ed esclamò un calmo «Mh?».
«A cena... Non ti sei presentato».
«Già».
«Perché?».
Il rosso si avvicinò a lui, scavalcò la ringhiera e si sedette su di essa, mentre Azazel girava la sigaretta metà consumata tra il pollice e l'indice della mano sinistra.
«Non mi piace stare in compagnia.» rispose lui, dopo un interminabile momento di silenzio.
«Perché?» chiese ancora una volta Eren, che aveva già sfilato via la sigaretta dalle dita dell'altro per portarla alla bocca. Tirò una leggera quantità di fumo, la mantenne in gola per un piccolo istante e in quello dopo la lasciò sparire nell'aria, non prima di riaprire gli occhi per potersi beare del walzer che i fili di fumo danzavano col vento.
«Tu fai troppe domande».
Azazel riprese immediatamente la sua sigaretta, fece un ultimo tiro e la premette contro il posacenere che pochi minuti prima aveva preso dalla scrivania, già pieno di cenere e cicche aranciastre e consumate.
«E tu non sembri affatto sorpreso di vedermi qui.» gli disse il rosso.
«Avevo intuito che fossi tu il mio compagno di stanza.» rispose l'altro.
«Sì? Come?»
«Per tante cose.»
«Tipo?»
«Ripeto, tu fai troppe domande». Il suo tono si fece più severo, ma non smosse di un millimetro la calma dal volto di Eren.
«È stata la vaniglia, vero?». Il corvino si girò verso Eren per la prima volta dopo interi minuti di conversazione e guardò dritto negli smeraldi incastonati, perdendosi nel riflesso della luna. Il rosso ricambiò lo sguardo, chiedendosi piuttosto il motivo per cui Azazel lo stesse guardando in quel modo. Eren aveva dei capelli ribelli lungo la fronte, abbastanza corti da mantenere scoperte le orecchie adornate con degli orecchini argentati; e aveva il naso piccolo, sottile e appuntito, rovinato da una piccola cicatrice quasi completamente guarita. Le sue guance erano di un rosa chiaro e le sue labbra di una tonalità più intensa, anch'esse segnate da una sottile linea bianca. Le sue occhiaie erano meno evidenti con tutto quel buio... Chissà cosa lo tormentava nel sonno, si chiese Azazel. E poi c'erano i suoi occhi che, allungati verso l'esterno da delle lunghe ciglia rosse, mantenevano le sue attenzioni sul maggiore.
«Cosa guardi?» chiese Eren, frantumando la bolla dentro cui Azazel si rinchiuse alla vista della luna... O dei suoi occhi.
«Tu cosa guardi?» ricambiò lui. Eren stava studiando tutto il suo volto, dal basso verso l'alto e poi dall'alto verso il basso, e poi ancora e ancora. Ciò che più lo attirava, era quella dannata cicatrice. Nel pallore di quella ferita, notò la più tenebrosa delle tenebre. E mentre quel pensiero gli vagava nella mente, non si rese conto della strana ipnosi in cui stava entrando... Sembrava stregato dal canto delle sirene o da una particolare stregoneria. I suoi occhi riflettevano il biancore dell'iride bianca e, per la prima volta, Azazel non notò alcuna paura. Era solo curioso, come un marinaio del mare o di uno scienziato del Big Bang. Si stava chiedendo cosa o chi gliel'avesse causata, il maggiore poté chiaramente leggerlo dalla sua espressione. Quello che non comprese fu, invece, il tentativo di Eren di toccargli quella ferita. La sua mano si avvicinò cauta, come fosse di fronte alle fiamme del fuoco, e lui distolse lo sguardo per non permettergli di avvicinarsi. Facendo ciò, l'incantesimo sembrò svanire e il minore ritirò la mano.
«Non farlo più.» disse severo, affinché la sua insicurezza non riflettesse nel suo tono di voce. Sentì un sospiro, infine un rumore di scarpe atterrate sulla pietra scura giunse alle sue orecchie.
«Forse». Se quell'improvviso movimento non riuscì a fargli scollare gli occhi dalle stelle, quell'unica parola attirò invece la sua totale attenzione. Una parola. Un tono arrogante. Lui. Si girò di scatto con i denti stretti e le dita serrate in due pugni, ma si rivelò essere già troppo tardi. Eren era sparito proprio come era arrivato: silenzioso come le ali di una farfalla in volo.

L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora