L’aveva trascinato in un tunnel senza ritorno.
Azazel vagava nel buio, tra gli ostacoli della vita e le curve strette dell’amore. Non c’era luce, né la possibilità di tornare indietro. Poteva solo andare avanti, ma quello che vedeva dinanzi a sé non gli piaceva affatto. Il dolore era l’unica cosa che illuminava quella strada buia. Il giardino che stava attraversando simulava alla perfezione quel tunnel privo di tutto e pieno di niente. Era sereno come una carezza al mattino, freddo come le punte delle sue dita. E lì, tra le mani del vento e la freschezza del prato, scoprì un nuovo silenzio. Era solito odiarlo, forse perché silenzio non era affatto. Sentiva più rumore in esso che in mezzo alla folla, perché la sua testa non smetteva di urlare e i suoi pensieri di parlare.
Quella notte, però, nella via in pietra e tra quella folla di alberi, si sentì così pieno di silenziosi rumori che la sua testa si rifiutò di pensare. Il suono della sigaretta consumata dal vento; il respiro che, per via del fumo, si innalzava grigio dalla sua bocca; l’intermittenza frizzante della luce; il verso dei cani che abbaiavano lontani. Questo era il silenzio che aveva scoperto di amare alla follia. Lì, tra quei solitari rumori, la sua testa non emetteva un solo sussurro. E lì, tra i suoi pensieri privi di agonia, la sua mente si faceva limpida e il suo cuore si riempiva della quiete di cui aveva bisogno. Si era innamorato di qualcosa che l’aveva sempre terrorizzato. Ed era strano, o forse completamente normale. Dopotutto, aveva scoperto l’amore solo dentro quella dannata villa… Solo grazie a quella dannata persona. Stava amando quel silenzio perché c’era lui dentro, come qualsiasi cosa per cui non provasse odio. Era lì, disteso sul prato vuoto. Vuoto come lui. Non un solo pensiero lo disturbava, non come qualche ora prima. Il cielo si era tinto di un azzurro più chiaro da un lato e rimase di un blu intenso dall’altro, quasi nero. Solo la luce della luna riuscì a mostrargli il suo corpo disteso nella parte più buia del giardino. Lì, non un singolo lampione copriva la luminosità delle stelle. Il satellite rifletteva nei suoi occhi verdi. Dio, quanto gli erano mancati. Brillavano ancora, proprio come la prima volta che lo vide e mai come l’ultima volta che lo abbandonò dentro la loro fredda stanza. Eren aveva le braccia sotto la testa, e gli facevano da cuscino su quel letto che aveva lo stesso colore delle sue iridi. Si rese conto della presenza di Azazel con la coda dell’occhio. E realizzò che quella fosse la prima volta che camminava con un passo così pesante. Si stava forse lasciando andare? O magari stava riempiendo un po’ quel silenzio che stranamente non gli dispiaceva? Azazel si avvicinò… I suoi passi tornarono leggeri come una falena in volo. Ed Eren sorrise al cielo, senza distogliere lo sguardo da esso. Lo guardava intensamente, come se la luna stesse facendo da specchio per mostrargli il viso stanco e il corpo appesantito del corvino. Ma appesantito da cosa? Aveva una risposta a quella domanda, dopotutto il dolore che Azazel provò quella notte gli apparve nel petto fin troppe volte per non comprenderlo. Ma per quanto fossero solo supposizioni, si rifiutò di crederci.
“Azazel non si lascia buttare giù dalle emozioni”.
Ma si sbagliava… E lo capì quando, alla sua domanda «Ti sono mancato?», lui non rispose affatto. Il maggiore si sedette al suo fianco, portò le ginocchia al petto e avvolse le gambe con le braccia. Lì, nell’ormai rumoroso silenzio, anche lui iniziò ad osservare il cielo tanto cupo quanto bello. E non sentiva nulla nel petto se non il fastidioso vuoto che Eren gli aveva lasciato. E non sentiva nulla nella sua testa, perché stanca pure lei di autodistruggersi.
«Non vuoi sapere dove sono stato?» chiese il rosso dopo istanti di quiete. Azazel non rispose, ancora una volta. E quel suo silenzio punitivo stava iniziando a innervosirlo. Per rabbia o per paura? Non lo sapeva, ma era convinto che quel ragazzo sapesse già qualcosa. Si affrettò a sollevare il busto, poggiandosi al prato con le mani per sostenere il petto appesantito dai sensi di colpa. Niente. Azazel non si girò neanche stavolta verso di lui. Allora, Eren sospirò e portò lo sguardo dinnanzi a sé.
«Non avevi detto che saresti venuto a prendermi?»
A quelle parole, il corvino gli lanciò un’occhiata e i loro occhi si incrociarono. Un fulmine di rabbia gli attraversò le iridi, ma il rosso non ne comprese il motivo.
«Eri sparito. Come potevo?»
Il ghiaccio su una ferita gli avrebbe procurato un’ustione meno grave… Azazel era freddo come l’erba bagnata sotto di loro.
«Non so, pensavo che Zel sapesse tutto.»
Un sospiro strappò il velo di quiete e mostrò una frivola tensione. Un brivido attraversò la schiena del maggiore al “Zel”, ma non volle prestare attenzione a quel dettaglio.
«Lo pensavo anch’io.» sussurrò tra sé e sé, solo dopo aver distolto lo sguardo altrove. Infine, distese il suo corpo sul verde del prato e socchiuse gli occhi gonfi e stanchi. Illuminato dalla luce della luna, anche Eren poté notarli. Il minore deglutì e si limitò a seguirlo in silenzio. Si distese quindi al suo fianco e cercò in tutti i modi di avvicinarsi a lui. Rigido, il corpo di Azazel divenne improvvisamente rigido.
«Oh… Guarda. Il Grande Carro.» esclamò il minore, puntando la costellazione con il dito indice.
Il corvino non reagì. Si mise comodo sul suo stesso braccio e mantenne gli occhi fissi sulla luna. Stava parlando con lei.
«Quello è il Cigno.» parlò ancora.
«E quella è la tua costellazione». Azazel fu tremendamente incuriosito da quelle parole, tanto da non riuscire a fermare il suo sguardo dal posizionarsi dove Eren stava puntando.
«Perché mia?» chiese, ancora con quel tono crudo.
«È la costellazione dello Scorpione, il tuo segno zodiacale.» esclamò. Nel vederla, i suoi occhi si riempirono di luce e un angolo della sua bocca si sollevò di riflesso… Non aveva mai visto le costellazioni così dettagliatamente. Immersa nella natura, quella villa dava la possibilità di studiare al meglio una meraviglia così grande.
«E ne conosci altre?» gli chiese, curioso. Il dolore gli svanì ancora una volta dal petto, accecato ancora una volta dall’amore.
«La costellazione di Orione, ma è una costellazione invernale. E le costellazioni zodiacali, ma sono difficili da vedere a occhio nudo.»
«Le hai mai viste al telescopio?»
«Sì… C’era una torre con molti vecchi attrezzi nel castello. Stavo spesso lì, ma il Signor Atkins decise di svuotarla per chiuderla. Ama risparmiare spazio». Azazel sentì una fitta al petto a quel verbo al presente, e sentì il respiro bloccarsi all’idea che quell’uomo fosse davvero vivo. Ma non commentò, voleva ancora tenere per sé il segreto di conoscere la verità.
«Mh.» disse soltanto, per poi lasciare spazio al silenzio. Anche Eren non parlò più. Quella tranquilla tensione lo stava annientando da dentro e la voce fredda di Azazel gli stonava nelle orecchie come fosse gesso su una lavagna. Non lo sopportava. Avrebbe voluto chiedergli della nuova squadra, del nuovo capo, dello Stregone. E soprattutto come stessero gli altri. E come stesse lui. Ma non aveva il coraggio di dire una parola, forse perché terrorizzato dal dire troppo. Azazel non doveva scoprire nulla. D’altro canto, il corvino stava cercando di cancellare le parole di Ray dalla sua mente e il dolore causato da esse dal suo petto. Ma non ci riusciva… Era tutto troppo straziante da sopportare. Si sentì soffocare da quella menzogna, e una parte di sé sperava che Eren bloccasse quel silenzio per dire la verità. Lo avrebbe perdonato se avesse rivelato tutto quella notte. Ma non stava parlando, non stava dannatamente parlando. E come il tono di Azazel stonava nelle orecchie di Eren, anche il silenzio iniziò ad infastidire i timpani del primo.
«E la luna?» chiese pur di strappare via la sua mente dalle mani del rumore. Il rosso si voltò verso di lui e, incantato dal suo profilo illuminato dalle stelle, sussurrò vagamente:
«Vuoi sapere se l’ho mai vista al telescopio?»
«Mhmh.» rispose lui. Attimi di silenzio precedettero quella domanda. Eren cominciò a guardargli le labbra, com’era solito fare quando Azazel si addormentava al suo fianco e con il viso rivolto verso l’alto. Ne era incantato, esterrefatto. Vedeva il peccato in esse, due lame taglienti o il veleno che si ricava dai fiori più belli. Azazel era il fiore più bello… E anche il più velenoso.
«Preferisco guardarla da lontano.» disse quando riuscì a distogliere lo sguardo da quei boccioli per portarlo sulla palla luminosa che li sovrastava.
«Perché?» continuò a chiedere il corvino, con gli occhi ancora fissi verso il cielo.
«È più facile illudersi di poterla prendere tra le dita.» sussurrò in un filo di voce. Non per vergogna, non per timidezza. Ma la luna sembrò ammaliarlo a tal punto da sollevare il braccio e tenderlo verso di essa. Aprì le dita a più non posso e, solo quando il dorso della sua mano impedì ai suoi occhi di vederla, le strinse forte al palmo… Come se non volesse farla scappare. Azazel seguì quei movimenti in silenzio, poi guardò i suoi occhi. Quella notte, il verde delle sue iridi era tendente al celeste per via del riflesso perlaceo della luna. Anche lui tornò a fissarla, poi innalzò il braccio per illudersi di poterla anche solo sfiorare con la punta delle dita. Ma non la stringeva al palmo, come se avesse paura di frantumarla. Perché lui voleva conservarla, proteggerla… Alla fine, lei era l’unica che non aveva mai anche solo pensato di tradire la sua fiducia.
«Ma sai…» parlò Eren nel silenzio, che si riempì del rumore dei loro battiti sempre più veloci. Le dita del rosso iniziarono a cercare disperatamente quelle del maggiore.
Le sfiorarono, poi le toccarono e cominciarono, infine, ad avvicinarsi al suo palmo.
«A volte quell’illusione diventa realtà.» disse ancora una volta a bassa voce. Azazel sentì dei brividi accompagnare il formicolio che quei polpastrelli causavano al suo palmo, ma non ritrasse il braccio. Ma non voleva sapere il motivo per cui sentisse il bisogno di quel contatto, avrebbe solo causato ancora più rabbia in lui. Rabbia perché, nonostante tutto quel dolore, aveva lasciato ancora spazio al sentimentalismo. Come se una parte di sé stesse ancora sperando che Ray avesse sentito male, oppure che ci fosse una spiegazione dietro a quella chiamata.
«Come?» gli domandò il maggiore. A quel punto interrogativo, Eren ebbe finalmente il coraggio di far scivolare le dita tra le sue per farle intrecciare in un legame indistruttibile. Il filo rosso che legava i loro polsi era ancora lì, ben saldo. Neanche la morte di uno di loro l’avrebbe sciolto.
«Così.» sussurrò infine, lasciando la possibilità ai loro respiri pesanti di diventare i protagonisti di quel silenzio. Poi, entrambi guardarono le loro mani legate e la luna riflettere sulle loro pelli chiare… Era come se la sua luce volesse risaltare il colore rosso del filo che avevano al polso. Era come se stesse dicendo “Guardate, il filo è ancora qui! Perché voi siete destinati l’uno all’altro”. Eppure, ignorarono le sue parole. Poi, tra il vento fresco e l’erba bagnata dalla rugiada della notte, i loro sguardi si incontrarono. Le loro guance erano a contatto con il prato, le loro mani ancora unite, i loro respiri così vicini da solleticare l’uno il viso dell’altro. Improvvisamente, l’aria non sapeva più di erba fresca o quercia bagnata. Sapeva di loro. Eren poteva percepire il profumo del dolore di Azazel. Ma erano solo paranoie, giusto? Azazel sentiva fievolmente la fragranza dei sensi di colpa di Eren. Ma era solo una sua illusione, giusto? Azazel non sapeva niente ed Eren non provava rimorso. Ma Azazel sapeva tutto ed Eren era pentito di ogni sua azione. Dicevano di conoscersi ma, alla fine, avevano solo estranei dinanzi ai loro occhi. Come quando si guardavano allo specchio, perché uno aveva una maschera diversa al giorno sul viso e l’altro non conosceva neanche il suo vero volto. Erano un caos insormontabile, quasi naturale. E come ogni caos naturale, non si conosceva la loro provenienza né si poteva fermare. Ma se erano così sconosciuti come sapevano in fondo di essere l’uno per l’altro, allora di chi erano davvero innamorati? Forse dell’idea che si erano costruiti dell’altro. O magari erano solo ossessionati dal difficile e dal dolore. Oppure, avevano semplicemente un matto bisogno di amare e di essere amati. Ma non volevano amare un corpo, un carattere. E non volevano essere amati per quegli stessi motivi. Avevano la folle necessità di amare ed essere amati da due occhi che fossero in grado di vederli diversamente da come loro vedevano sé stessi. E volevano iniziare ad amare sé stessi nell’idea di essere amati da qualcun altro.
Erano folli, sì. Folli per via di un amore che li stava distruggendo.
Folli perché, in quella distruzione, loro vedevano il modo in cui rinascere e il motivo per cui restare. Folli, l’uno per l’altro. E bastava questo.
«Zel…»
La mano di Eren si staccò da quella di Azazel per avvicinarsi al suo viso. Gli solleticò la cicatrice nell’intento di rimuovere delle ciocche dall’occhio, e posò le dita sulla guancia fredda per poterla riscaldare con le temperature calde della sua pelle. Un fremito attraversò la schiena del maggiore per quel tocco così delicato e timido… Era come se non volesse pressarla troppo per non fargli male o per non riportargli alla mente brutti ricordi. Perché, alla fine, Eren ai suoi sentimenti ci pensava eccome. Lo dimostrava quella mano, quello sguardo accigliato che mostrava pentimento. E quella bocca aperta che, per qualche ragione, gli stava suggerendo che volesse rivelare tutto. Ma lui non voleva la verità, non in quel momento di pace. Gli avrebbe dato la possibilità di parlarne; ma non su quel prato, non con quel tocco, non con quell’atmosfera che gli avrebbe annebbiato la testa fino a disinteressarsi del dolore che gli aveva recato.
«Io-»
Come aveva previsto, voleva parlare. E come aveva pianificato dall’inizio di quel contatto, lo baciò. E non per interromperlo, non per zittirlo. Sentiva la follia crescergli dentro per la voglia matta di farlo. Quindi lo fece. E non era da poco, non per un uomo che non faceva altro che trattenersi da una vita. Non per un ragazzino che fingeva di non provare nulla per non provare tutto.
E non per un bambino che si illudeva di essere amato da suo padre. Azazel amava poche cose, ed esse erano tutte racchiuse nel corpo che in quel momento si sollevò dal prato per posizionarsi sul suo addome… Amava il fuoco, rosso come i suoi capelli. Amava la luna, luminosa come i suoi occhi. Amava i libri, che leggeva come le pagine della sua vita. E amava la notte, oscura come i mostri contro cui combatteva ogni giorno. Era folle per amore e innamorato della follia. Ed Eren era pazzo per amore e impazziva per lui. Per lui e per le sue labbra, per la sua pelle e per le sue mani. Le aveva addosso, e gli stavano graffiando la carne così ferocemente da fargli male. Ma amava anche il dolore che Azazel gli provocava.
«Zel…»
Il minore veniva continuamente soffocato dai baci del corvino. Non gli dava il tempo di ritirarsi e respirare, le loro bocche si muovevano costantemente le une sulle altre. Ma lui continuava a pronunciare il suo nome tra un mugolio e un altro… Era rimasta la sua parola preferita da allora. E ancora: Zel, Zel, Zel. Più pronunciava il suo nome, più quel bacio si faceva rapido e soffocante. Sentì perfino il respiro del corvino cessare di esistere pur di andare più veloce; perciò, fu costretto a tirarsi indietro finché il suo busto non si mise eretto sul bacino dell’altro.
«Piano, Dio.» sussurrò, prima che il gusto metallico si espandesse sul suo palato. Azazel si allarmò di colpo… Da dove veniva il sangue sul suo labbro? Tirò su la parte superiore del corpo e prese il suo labbro inferiore tra le dita per guardarne il retro. La cicatrice che aveva già da molto sui boccioli si era riaperta nella parte più interna, colorando la sua bocca di rosso.
«Ti fa male?»
Gli faceva male, ma non smetteva di sorridere. Azazel aveva due palle da tennis al posto degli occhi per quanto spalancati fossero dalla preoccupazione. Ed Eren ridacchiò, prese il suo viso tra le mani e gli lasciò un semplice bacio sull’angolo del labbro. Non fu delicato, però. Fu di una malizia immensa, tanto per la lentezza quanto per il movimento del suo bacino. I suoi occhi si fecero scaltri, intagliati come lo sguardo di una sirena. Il corvino si ritrovò improvvisamente con la schiena contro il prato, spinto dalla mano che si era posata furtiva sul suo petto. Eren mosse di nuovo i fianchi, ancor più lentamente. E per quanto i loro vestiti coprissero ancora le loro pelli, Azazel percepì del calore nel bassoventre. Il rosso simulò un gemito, strinse il tessuto della maglia del corvino e portò indietro la testa. Il maggiore, invece, lo guardava dal basso con le labbra socchiuse e gli occhi illuminati dalla lussuria. Le sue mani scivolarono fin sotto ai buchi di Venere, e la voglia di incastrare i suoi pollici lì e scoparlo cresceva sempre più. Eren ghignava come un cacciatore con le mani piene di piccole prede o una iena con la pancia piena. Cosa lo faceva divertire così tanto? Forse quella recita così avventata, o magari la reazione ad essa del maggiore. Non poteva che essere la seconda, e la conferma arrivò quando le mani maledette di Azazel gli strapparono la camicia bianca, facendogli saltare tutti i bottoni. Poi si risollevò dall’erba e allungò il collo verso il viso di Eren. Voleva baciarlo. Ma il minore voleva provocarlo fino allo sfinimento, perciò allontanò il volto. Azazel ringhiò, come un predatore disperato per aver perso la sua preda.
«Che c’è, Zel?» disse il ragazzo, in un filo di voce colmo di malizia.
«Sai, non ti conviene provocarmi.» sussurrò l’altro, stringendo le cosce del rosso tra i polpastrelli.
«No?» parlò Eren, oramai sempre più vicino alla bocca di Azazel.
Ma lui aveva capito il suo gioco, perciò si limitò a guardargli le labbra e a sperare che fosse lui a cedere per primo.
«No». Per la prima volta, Eren percepiva della malizia anche nel suo sguardo. Il maggiore aveva entrambi i lati della bocca sollevati, gli occhi socchiusi, la lingua su un lato del labbro inferiore e i denti bianchi che ogni tanto apparivano nell’ombra e lo illuminavano come fosse un faro in mezzo all’oceano. Azazel aveva il fascino del predatore, del giovane uomo che non sapeva di avere una bellezza disarmante. Ecco qual era la differenza tra i due. Se da un lato Azazel non era consapevole della sua bellezza, dall’altro, Eren lo era eccome. E la usava a suo vantaggio, come fosse una vera e propria arma. Affilata. Tagliente. Penetrante. La sua bellezza era una lama a doppio taglio.
«E cosa faresti, altrimenti?» gli chiese il più piccolo, trattenendo le labbra tra i denti per non cedere a quel bacio.
«Non vuoi saperlo davvero.» sussurrò Azazel.
«Sì che voglio.»
Silenzio. Azazel ammiccò un sorriso. Eren finse innocenza con due occhi da cerbiatto. Poi, le labbra del maggiore affiancarono il lobo del suo orecchio e la pelle del suo collo, a contatto con il respiro caldo, si fece improvvisamente sensibile.
«Ti farò godere così tanto da farti dimenticare i nomi di tutte le costellazioni.»
Eren provò a ghignare, ma la sua gola si fece improvvisamente secca. Azazel non era solito dire certe cose, o fare certe cose. Sentirglielo dire, perciò, creò in lui una reazione più che lecita. Il maggiore se ne accorse e, come nulla fosse, portò una mano sul cavallo dei suoi pantaloni per stringerlo… Quella stretta urlò “mio” da tutte le parti. Eren gemette in risposta a quel piacevole dolore o doloroso piacere. Infine, afferrò il ragazzo per le ciocche nere e lo attirò a sé, perdendo così quella scommessa. Ben presto, quei corpi si scoprirono nudi. Erano così annebbiati dal piacere da non rendersi nemmeno conto di dove o quando si fossero spogliati delle loro vesti. Azazel aveva ancora le sue carni tra le dita quando Eren lo introdusse dentro di sé, gemendo così dal piacere. E andò giù, lentamente, non essendo ancora abituato. Sentiva la pelle lacerarsi e conformarsi alla grandezza di quell’erezione, e il piacere crescere quando la punta gli sfiorava il punto perfetto. Poi su. Poi giù. Sempre più velocemente. Ma bastò poco per far andare l’altro fuori di testa. Quel movimento di mano che Eren faceva per tirare all’indietro i suoi stessi capelli, i movimenti circolari del bacino, le sue labbra continuamente schiuse per simulare gemiti e mugolii. Come poteva non perdere la testa di fronte a quella visione? E proprio come Azazel aveva detto, Eren dimenticò ben presto i nomi di tutte le costellazioni. Lo fece nell’istante in cui il maggiore invertì le posizioni per prendere le redini di quel peccato. E spingeva in lui con così tanta forza da far tremare la terra che avevano sotto di loro. Le perle di sudore gli decoravano il viso e il petto, il respiro caldo accompagnava i più profondi ansimi che avesse mai udito. Se Eren era una divinità greca, dall’altra parte vi era l’angelo esiliato dal Paradiso perché Dio stesso invidiava la bellezza che gli aveva donato. Bello come Azazel, in quel momento, non c’era niente e nessuno. E bello come Eren, in quell’istante, non c’era niente e nessuno. Nessun angelo, nessun demone, nessun Dio. Solo loro.
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L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)
RomanceGli occhi sono davvero lo specchio dell'anima? Nonostante non ci sia una vera e propria risposta a questa domanda, coloro che sono entrati in quell'occhio e hanno avuto la fortuna di uscirne vivi raccontano di aver visto l'anima del Diavolo al suo i...