Le quattro mura tenevano nascosti i loro sospiri dal resto del mondo. Azazel si era da poco disteso dall’altra parte del letto quando afferrò i suoi pantaloni da terra per cercare il pacco di sigarette nelle tasche. Ne prese una, e la passò sul labbro inferiore prima di accenderla. Chiuse gli occhi poco dopo per bearsi dell’effetto rilassante della nicotina, ma non ebbe il tempo di aspirare una seconda volta. Bryan la sfilò via dalla sua bocca e la afferrò con la propria, riempiendo infine l’aria di fumo grigio e soffocante. Il corvino riaprì gli occhi e diresse lo sguardo verso la sua direzione… Osservò il suo profilo abbastanza a lungo da notare i punti che circondavano la cicatrice sul suo volto. Poi, accese un’altra sigaretta.
«Posso farti una domanda?»
Quella voce mandò via la quiete.
«Dipende.» esclamò Azazel, buttando via il fumo dalla bocca.
«Perché odi farti chiamare “Zel”?» continuò il mulatto, ignorando la sua risposta. Azazel portò un braccio sotto la nuca, poi si voltò verso la sua direzione. Lì, si sentì sprofondare nell’abisso dei suoi occhi.
«E’ una lunga storia.» disse soltanto, tornando con lo sguardo verso il soffitto. Odiava sprofondare in quel modo.
«Ho tutto il pomeriggio». Azazel non rispose e lasciò il tempo al silenzio di tornare tra quelle mura, nella speranza che cancellasse quella curiosità dalla mente dell’altro.
«Non vuoi dirmelo?» gli chiese il mulatto.
«È irrilevante.» pronunciò lui, perdendosi tra i centimetri del soffitto.
«Voglio saperlo lo stesso». A quelle parole, Azazel sospirò rumorosamente. Il suo cuore gli diceva di non dire nulla e i colori del tramonto, che iniziavano a tingere il cielo, entravano dalla finestra per confermare le sue parole.
«Sono tre le cose che mi fanno più arrabbiare al mondo. Due di queste sono le persone insistenti e chi mi chiama in quel modo. Ti basta sapere questo.»
«Ed Eren.» pensò ad alta voce.
Bryan distolse le sue attenzioni quando Azazel portò le sue su di lui. Non aveva il coraggio di guardarlo in faccia, qualsiasi fosse la sua reazione. Perché sapeva che l’avrebbe avuta, anche se impercettibile. Ma lo avrebbe notato, come notava il modo in cui Azazel guardava Eren e il suo modo di prendersi cura di lui. Era furbo, quel ragazzo. Ma non abbastanza da nascondere a Bryan quei piccoli gesti che facevano comprendere quanto ci tenesse al rosso. La sua espressione si accigliò a quel pensiero, ed esso si mescolò ad una domanda che decise di ignorare per non far capire nulla all’altro: cos’era lui per Azazel?
«Cosa?» domandò l’altro, voltatosi verso di lui. Bryan deglutì, e i suoi occhi si persero tra le macchie e i buchi del soffitto. Azazel captò ogni sua minuscola espressione, e la sua mostrò quella confusione che da quel “Ed Eren” occupò gran parte della sua mente.
«È la terza.» rispose Bryan, girando il corpo verso l’altro comodino per spegnere la sigaretta sul posacenere. In verità, era solo una scusa per non farsi guardare in faccia.
«Cosa te lo fa credere?» pronunciò l’altro.
«Secondo te?»
Finalmente, ebbe il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. E mentre quello di Azazel mostrava ancora confusione, il suo era serio e accigliato, come se stesse pensando a quel qualcosa in particolare che lo avesse portato ad affermare le sue parole.
«Non so di cosa tu stia parlando, Bryan». Il corvino sollevò il busto dal materasso e gli diede le spalle per afferrare i suoi vestiti da terra. Era stufo di quella conversazione.
«Lo sai bene, invece.»
«No.» disse lui, sollevatosi dal materasso per alzare i pantaloni in vita. Indossò infine la maglia, e si voltò verso di lui.
«Non ne ho proprio idea.»
«I tuoi occhi parlano per te, Azazel». Anche Bryan sollevò il busto dal letto, ma decise di rimanere sotto le coperte.
«Senti…» esclamò l’altro, sospirando.
«Non so perché stiamo parlando di questo, ma ti assicuro che i miei occhi non dicono nulla al riguardo.»
«Sì? Allora dimostramelo.» esclamò il mulatto.
«Cosa?»
«Che mi sbaglio… E che non ti importa di lui.»
«E perché dovrei?»
«Dammi questa soddisfazione.»
Azazel restò in silenzio, e ascoltò attentamente le sue iridi parlare al suo posto. Ma non serviva a niente… Perché non era mai stato bravo a decifrare le sue emozioni, ancor meno quelle degli altri. Non era sicuro di ciò che vide tra le sfumature castane, né tantomeno del motivo per cui odiasse tanto Eren. Forse non sopportava il fatto che gli ricordasse sua madre, o magari odiava l’idea che con lui non riuscisse a controllarsi.
«Non sono bravo a soddisfare le persone.» si limitò a dire, avvicinandosi all’uscita.
«Allora dimostralo a te stesso.»
«Io non ho proprio nulla da dimostrare, Bryan. Ficcatelo in testa.»
Il suo tono crudo e severo echeggiò tra le mura della torre nell’esatto momento in cui aprì la porta. Azazel percorse le scale a chiocciola, poi il corridoio. Infine, girò la mano della statua che nascondeva la torre dentro cui giaceva la sua stanza. E vi entrò. La prima cosa che gli saltò nell’occhio fu Eren piegato sulla scrivania. Il rumore che la matita produceva sul foglio gli fece comprendere il motivo di tale silenzio… Era raro in posti in cui c’era Eren. Quest’ultimo venne attirato dallo scricchiolio della porta, ma ad annunciare la sua presenza fu il rumore della statua farsi da parte per farlo salire. Eppure, per qualche ragione, fu solo al suo arrivo in camera che il ragazzo chiuse il quaderno. Schiarì la gola subito dopo, e si alzò dalla sedia.
«Dove sei stato?» gli chiese.
«Ti importa davvero o semplicemente non sai stare in silenzio quando ci sono altre persone attorno a te?»
«Decisamente la seconda.» esclamò il rosso, sistemando il quaderno dentro il cassetto del suo comodino. Azazel tolse la maglia, intenzionato a fare una doccia. Ma a quel gesto, l’odore di bergamotto venne sprigionato lungo tutte le pareti. Il suo olfatto ne era così pieno da non riuscire a sentirlo, a differenza di Eren che, impulsivamente, si girò verso di lui. Azazel sentiva la pelle bruciare e ne comprese il motivo solo quando si girò verso il rosso: lo stava fissando pietrificato, con due occhi grandi come palle da tennis. Sentì il suo respiro fermarsi e il suo cuore accelerare. Per qualche strana ragione, stava trattenendo il fiato. Pochi istanti dopo, quella figura si allontanò dal proprio letto e gli andò contro, sbattendo contro la sua spalla. Infine andò via, lasciando la stanza piena del rumore che la porta produsse contro lo stipite. Adesso era lui quello pietrificato. Non sapeva come reagire a tale azione, né tantomeno a cosa pensare.
~
Quella notte non chiuse occhio. Il suo udito venne infastidito per tutto il tempo da un suono a lui lontano. Veniva dalla serra, ma capì a cosa fosse dovuto solo il giorno dopo… Quella mattina, Eren fece ritorno con le nocche spaccate e il sangue che gocciolava fin sopra il pavimento. Aveva trascorso ore intere a prendere a pugni qualcosa, probabilmente il sacco da boxe. Le ferite profonde, però, gli fecero dubitare di questo.
Si alzò dal letto alle prime luci dell’alba, con gli occhi gonfi e le occhiaie nere. Lavò il viso con dell’acqua congelata per ripescare quel poco di energia rimastagli in corpo e, quando uscì dal bagno, trovò Eren davanti alla finestra. Era chiusa, perciò la puzza di fumo giunse violenta nei suoi polmoni. Sospirò quindi con violenza e si avvicinò all’altro, aprendo la finestra per far uscire quell’odore sgradevole. A quell’azione, Eren la richiuse.
Allora il corvino la riaprì, e il rosso la chiuse ancora una volta.
«Mi spieghi qual è il tuo problema?» gli chiese allora, arrabbiato e confuso da quel gesto. Il minore non rispose, si limitò a tamburellare il tallone sul pavimento. Era turbato, nervoso. E a stento riusciva a tenersi quel malessere dentro.
«Eren.» lo richiamò, attirando la sua attenzione.
«Tu… Sei tu il mio problema.» esclamò lui, secco e deciso.
Azazel sospirò ancora, in seguito si allontanò dal ragazzo.
«Sono stufo delle tue stronzate.» esclamò poi, in un sussurro che sembrava più un pensiero detto ad alta voce.
«Delle mie stronzate?» parlò ad alta voce il rosso, rivolgendogli una prima occhiata.
«Come se fossi io il problema tra i due.» disse a voce ancor più acuta, facendo così voltare il corvino verso di sé.
«Mi spieghi che hai? Perché ti comporti in questo modo?» gli chiese, ma infondo sapeva di cosa si trattasse. Eren non sapeva controllare le sue emozioni proprio come sua madre, che lo aggrediva ogni volta che faceva una domanda di troppo o urlava contro il padre anche solo per averle scompigliato i capelli.
Il suo umore si alzava e abbassava come una montagna russa. A possederla era un’anima fragile che non sapeva fare i conti con sé stessa, e il suo dolore la tormentava a tal punto da non riuscire a tenerselo per sé. Per un solo istante, poté vedere il viso di lei nel corpo di lui. E rabbrividì.
«Perché non riesco più a sopportarlo.» urlò ancora, questa volta con un velo di lacrime agli occhi. Cosa non sopportava? O chi?
Azazel non ebbe il tempo di porgli quelle domande, Eren era già scoppiato in un pianto rumoroso e drammatico. Lo vide spostare i capelli all’indietro e lasciare la mano sul capo per stringere le ciocche. Il suo petto faceva su e giù con fatica, ma rapidamente. Aveva il respiro corto e il battito veloce, le guance oramai bagnate e il corpo si manteneva in piedi a stento. La stanza si affollò di ansimi, subito dopo un pugno contro la finestra spezzò anche il respiro del maggiore.
«Che cazzo fai?» disse lui, avvicinandosi al rosso. Tentò di afferrargli il polso per guardare quella mano dolorante e sporca di sangue, ma Eren si rifiutò di farsi toccare. Infatti, spostò immediatamente il braccio e si spinse contro il muro che affiancava la finestra, prima di piegare il busto e portare quella mano sul petto. Strinse con forza la sua maglia, come se volesse strapparsi il cuore dal petto. E i polmoni gli bruciavano come se ci fosse fuoco dentro.
«Eren…» pronunciò Azazel, ma senza ottenere le sue attenzioni.
«Non respiro.» sussurrò lui, tra un respiro mancato e un altro.
«Hey, guardami.»
Eren non lo guardò. Aveva le pupille inchiodate al pavimento macchiato di rosso, la mente annebbiata dai mille pensieri. Stava cercando di calmarsi in tutti i modi, ma sentiva tutto il peso del mondo addosso. Un ronzio gli suonava nella testa a tal punto da non sentire la voce dell’altro, che cercava in tutti i modi di attirare la sua attenzione. Poi, quel suono si fermò.
Azazel aveva afferrato il suo viso e lo stava tenendo fermo tra il suo petto e il muro per non farlo crollare sul pavimento. Le sue mani erano calde, ma stavano tremando. I loro sguardi si intrecciarono, e il mondo smise di girare. Eren aveva gli occhi spalancati, la bocca aperta per cercare di recuperare ossigeno.
Le sue gambe, invece, non sapeva più se fossero instabili per quell’improvviso attacco di panico o per quel corpo così vicino al suo. Poté sentire una scossa correre lungo la sua schiena, e i polmoni aprirsi lentamente. Azazel stava dicendo qualcosa, ma l’eco del suo battito nella gabbia toracica non gli permetteva di udire. Quando, però, sentì l’altro ispirare con calma dal naso ed espirare dalla bocca sul suo caldo viso, comprese le sue intenzioni. Stava cercando di aiutarlo, ancora…
Eren seguì quei respiri e li ripeté con lui, con sempre meno difficoltà. E quando il suo petto smise di bruciare, tornò finalmente in sé. Sentì Azazel sospirare, sembrava quasi sollevato. Ma qualcosa lo teneva ancora incollato al volto del minore: le lacrime. Grandi gocce d’acqua scorrevano sul suo viso e gli bagnavano i pollici, che si muovevano per asciugare gli zigomi. Quando sentì il ragazzo deglutire, si allontanò di un passo.
«Cos’è successo?» domandò.
«Non lo so.» gli rispose il rosso, abbassando lo sguardo dall’imbarazzo.
«Eri in sovraccarico.» disse il maggiore, facendo sollevare un angolo della sua bocca.
«Sovraccarico?» ripeté Eren.
«Sì… Di emozioni, pensieri.» spiegò lui, affaticato dalla preoccupazione.
A quelle parole, il rosso non riuscì più a staccargli gli occhi di dosso. E quasi sorrise quando realizzò che Azazel lo avesse appena aiutato ad affrontare il suo più grande incubo.
«Come fai a saperlo?»
«Cosa?» chiese il corvino.
«Come aiutare una persona in preda al panico.» aggiunse Eren.
Azazel alzò le spalle, fingendo un’espressione che potesse illuderlo di averlo fatto semplicemente “a caso”.
«Dimmi la verità.» parlò Eren, sicuro che stesse mentendo.
Il corvino fece un sospiro, poi si allontanò verso l’armadio.
«Quando non si ha l’appoggio di nessuno, si impara ad affrontare le cose da soli.» si limitò a dire, mentre il suono dei vestiti violentemente spostati disturbava la sua melodiosa e profonda voce.
«Ora però mi spieghi cos’è successo.» continuò il corvino, facendo distogliere lo sguardo del ragazzo verso il silenzioso e freddo panorama.
«Come hai detto tu, sovraccarico.»
«Dovuto a?»
«Emozioni e pensieri.» pronunciò, a tratti in maniera ironica.
Azazel gli lanciò un’occhiata, sfidandolo a prenderlo in giro ancora una volta. E ciò provocò la risata del più piccolo, che asciugò finalmente le guance.
«Dovresti dirmi la verità.» gli propose il maggiore.
«E tu dovresti dirmi per quale ragione hai l’odore di Bryan addosso». Il corvino si pietrificò dinanzi ai suoi vestiti. Aprì poi la bocca, ma non uscì nulla da lì. Non subito, almeno…
Eren era tornato ad essere la sua condanna.
«È per questo che sei andato via ieri notte?»
«Non ho detto questo.» disse Eren, incrociando le braccia al petto.
«Sicuro?» domandò il corvino.
«Cosa c’è tra te e Bryan?» insistette Eren, portandolo a sbuffare.
«Siete entrambi così insistenti. Satana vi ha plasmato con lo stesso impasto.» parlò Azazel. E a quelle parole, l’espressione del rosso si fece improvvisamente seria.
«Mi stai paragonando a lui per caso?»
Azazel si era appena avviato dentro un labirinto senza via d’uscita.
«No, sto solo dicendo che siete testardi.»
«Stavi iniziando a piacermi, ma hai appena rovinato tutto.» appuntò il minore.
«È il mio mestiere rovinare le cose.» rispose l’altro, senza rendere esplicito il tono ironico. Forse perché, infondo, non stava scherzando. Quella risposta diede il via a un silenzio imbarazzante, che Azazel nascose alle sue orecchie concentrandosi sul battito dell’altro. Ma lo sentiva accelerare ogni secondo sempre di più e, quando si voltò a guardarlo, notò il suo sguardo perso nel vuoto. Stava pensando a qualcosa, e quel qualcosa lo stava tormentando. Il maggiore lo fissò per pochi secondi, poi cominciò a poggiare i suoi vestiti sul letto. Le sue azioni, però, vennero bruscamente interrotte dall’improvvisa ed estrema vicinanza del rosso, che si avvicinò a lui di sottecchi prima di stringere i pugni ai lati dei fianchi.
«Lo rivedrai ancora? Bryan…» disse.
«Viviamo insieme, tu che dici?» rispose Azazel, rimanendo serio e composto. Qualcosa dentro di lui, però, si stava muovendo di nuovo.
«Sai cosa intendo.» affermò Eren, il cui viso si faceva sempre più accigliato. Il maggiore non seppe come rispondere, perciò si limitò ad alzare le spalle e afferrare la maglia dal materasso.
I pugni del rosso si fecero ancora più stretti, riaprendo le ferite.
«Ci tieni così tanto a saperlo?»
«Fottiti…» sussurrò lui, distogliendo lo sguardo.
«Quindi ci tieni.» disse il maggiore.
«Come se ti importasse». Eren continuava a tenere le sue attenzioni in un punto casuale della stanza, e Azazel si approfittò di quella vicinanza per studiare ancora una volta il suo viso. E come al solito, si ritrovò a pensare che Afrodite l’avesse plasmato mettendo parte della sua immortale e divina bellezza in lui.
«No, infatti… Non mi importa.» gli rispose, ma quella frase sembrò uscire fuori senza il suo comando. Era come se le illusioni nella sua testa avessero preso possesso della sua voce per qualche secondo. Eppure, quando Eren si girò a guardarlo, i suoi occhi sembravano dirgli tutt’altro. Deglutì, poi fece un passo all’indietro. Stava iniziando a sentire il freddo della sua anima entrare dentro di lui, ed Eren non aveva intenzione di far spegnere le sue fiamme ad Azazel. Ma quest’ultimo sembrò reagire impulsivamente e ritirarsi l’attimo dopo. Infatti, fece per azzerare la distanza con un passo in avanti. Qualcosa, però, glielo impedì. Azazel sospirò, poi distolse lo sguardo.
«Allora va da Bryan, Azazel. Immagino che di lui ti importi, invece.» sussurrò, lasciando la stanza.
~
“Va da Bryan, Azazel”.
Quelle parole, quel tono di voce, quell’espressione.
Tutto di quella situazione lo stava tormentando.
Quella frase non smetteva di echeggiare ripetutamente nella vuota stanza qual era la sua testa e, ad ogni eco sempre più lontano, Azazel sentiva quelle quattro mura riempirsi sempre più di pensieri.
“Va da Bryan, Azazel”.
Quel leggero rimbombo tornava a farsi vicino quando raggiungeva il massimo del sussurro.
Lo stava torturando, proprio come le domande che gli chiedevano il perché di quella reazione. Aveva bisogno di fermare la sua testa, dargli altro di cui nutrirsi o fargli uno schema su come affrontare passo dopo passo quella situazione… Non sapeva come uscirne illeso, forse per la sua incapacità di confrontarsi con le emozioni o magari per la sua ignoranza riguardo esse.
Saltò la lezione di difesa.
Non voleva vedere nessuno, non voleva vedere quei due.
Si avviò in biblioteca e, tra la polvere dei libri e il silenzio della stanza, aprì la custodia. Afferrò lo strumento dalla tastiera e girò i piroli per accordarlo, prima di poggiarlo sulla clavicola e posizionare il mento sulla mentoniera. Mantenne il violino incastrato tra mento e spalla per tendere i crini dell’arco, infine raddrizzò la schiena. Lo strumento al suo fianco iniziò a suonare per lui. Ai suoi occhi, la madre stava premendo i tasti del pianoforte in un accompagnamento armonioso.
Azazel sorrise verso lo sgabello… La donna stava indossando il suo vestito preferito. La guardava di spalle, e osservava i suoi capelli corvini nasconderle la schiena.
“Va da Bryan, Azazel”.
Al nono secondo dal suo inizio, il figlio la accompagnò con il suono acuto e disperato del violino. E lì, tutto sparì nel nulla. L’arco si alzava e abbassava freneticamente, le note andavano su e giù come montagne russe. Le sue dita si muovevano sulla tastiera, il suo corpo dondolava sotto la cupola in vetro del secondo piano della biblioteca. I capelli gli solleticavano le guance, ma quella sensazione di spensieratezza annullava ogni fastidio e tormento. Adesso, l’unico rumore che produceva la sua testa erano le note di quella melodia…
“Introduction and Rondo Capriccioso, Op. 28”
E quella canzone, prima dolorante e poi rabbiosa, gioiosa e infine tesa, gli strappava via ogni pensiero dalla mente e ogni sofferenza dal petto. Riusciva a canalizzare tutti i suoi sentimenti proprio lì, tra le onde che il ritmo veloce e poi lento produceva.
La sua mente era limpida come l’acqua su cui giaceva quell’isola, il suo cuore calmo come le onde del mare sereno, e le sue dita delicate come farfalle di cristallo.
Ben presto il brano si fece più incalzante e meno tenebroso. Ma fu proprio in quella felice melodia che ricadde nell’oblio. Quel pezzo gli ricordava la vivacità e l’energia carismatica di Eren. E fu proprio in quell’istante che si chiese cosa fossero l’uno per l’altro. Arrivò alla risposta solo quando fermò l’arco per l’assolo della madre… In quel piccolo istante, con gli occhi puntati verso il sole e il freddo che gli gelava il sangue nelle vene, comprese che fossero come note della stessa canzone, ma destinati a rappresentare due emozioni diverse. Si stavano perdendo nel pentagramma, creando un’immensa confusione. Un po’ come la sua mente che, non sapendo dove sistemare i sentimenti, li raggruppava in un unico cassetto. Eppure, per quanto caotico fosse, il suo cuore non aveva mai applaudito così tanto.
Non sapeva cosa stesse succedendo tra loro, e quando le note cambiarono colore dimenticò perfino di rispondersi.
Eppure, quel rosso acceso continuò a tingere la tastiera anche quando non era il suo turno. Eren si era impossessato della sua musica, aveva fatto sua anche quella.
E di conseguenza, divenne il direttore dell’orchestra che Azazel aveva dentro.
Quella melodia rimbalzava tra le mura e giungeva fino al giardino, dove i ragazzi smisero di camminare verso la serra per chiedersi chi fosse l’artefice di quella meraviglia.
Tutti rivolsero lo sguardo verso il castello e, tra il freddo vento autunnale e l’odore della legna, visualizzarono la figura di Azazel dondolare il corpo dentro quella bolla di vetro.
Erano oramai lontani, ma abbastanza vicini da capire cosa stesse succedendo.
Quelle note, che si alternavano tra la tristezza e la rabbia, la confusione e il turbamento, stavano raccontando un pezzo di lui al mondo.
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L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)
RomanceGli occhi sono davvero lo specchio dell'anima? Nonostante non ci sia una vera e propria risposta a questa domanda, coloro che sono entrati in quell'occhio e hanno avuto la fortuna di uscirne vivi raccontano di aver visto l'anima del Diavolo al suo i...