Silenzio.
Odiava il silenzio.
C'era qualcosa in esso che non riusciva a controllare: le voci.
Odiava anche le voci quando gli dicevano così tanto da non dirgli nulla, perché tutto si mescolava in emozioni che faceva fatica a controllare. Eppure lo faceva, era parte di lui. Era lui, il silenzio.
E si odiava perché non riusciva ad essere rumoroso come la sua testa. Aveva un eco incontrollabile tra i pensieri, quell'eco che gli diceva di stare zitto, di non esternare ciò che aveva dentro. E questo lo rendeva una mina, pronta ad esplodere da un momento all'altro. Quello, fu uno di quei momenti.
La pioggia in sottofondo, l'idea che Ash non avrebbe usato le sue debolezze contro di lui, e le parole di Denver che erano oramai parte della sua coscienza. Non si sarebbe controllato, avrebbe esternato tutto e si sarebbe pentito l'attimo dopo. Ma ci provò, con tutto sé stesso. Per lui, per Denver. Per il suo migliore amico.
Ash stava al suo fianco, non diceva una parola. Quel silenzio gli stava dicendo già troppo. Gli stava sussurrando all'orecchio quanto difficile per lui fosse parlare di sé, ma lo attese.
Lo attese come si attende l'estate e poi l'inverno, la primavera e poi l'autunno. Lo attese come si attende la notte, poi il giorno. Poi la notte ancora. E lo attese, come aveva sempre fatto.
«Avevo otto anni quando tutto ebbe inizio.» annunciò, e Ash gli puntò i riflettori delle sue iridi azzurre addosso. Voleva leggere il suo viso, ma non una sola emozione inondava quel profilo. Aveva un tono calmo, l'espressione impassibile. Se avesse tolto il volume a quel frammento d'istante, non avrebbe mai compreso che Azazel stesse in realtà parlando di sé. Forse era parte di lui parlare del peggio senza riuscire a mostrare le sue emozioni.
«Mio padre aveva il brutto vizio di arrivare in ritardo alle riunioni con i suoi due colleghi. Si occupava molto di mia madre, perciò non scendeva spesso nella nostra cantina. Non come facevano gli altri due. Ai miei occhi, quella era la stanza del mistero. Nessuno mi aveva mai dato il permesso di entrarvi. Perciò lo feci di nascosto, convinto che fosse vuota. Quando entrai, vidi...»
Un sospiro lasciò la sua bocca, infastidito dal nodo alla gola che gli rendeva gli occhi lucidi.
"Se piangi, ti bruci la pelle e ti fai male" gli diceva suo padre quando era sulla soglia di un pianto isterico per il dolore allucinante che gli esperimenti gli causavano. E se lo ripeté nella testa anche in quel momento, proprio per non lasciarsi andare a quel pianto che manteneva dentro di sé da tutta la vita.
«Un bambino... Coperto da un lenzuolo macchiato di sangue. Era morto da qualche giorno, si poteva sentire la puzza del corpo in putrefazione. È stato... Strano? Non lo so. Non mi diedero il tempo di metabolizzarlo perché i colleghi di mio padre sbucarono all'improvviso dall'angolo più buio della cantina. Era dalla morte di quel bambino che cercavano un sostituto... E in quel momento, i loro occhi mi fecero comprendere di essere io. Mi dissero di bere un liquido. Era trasparente come l'acqua ma amaro come nessun'altra cosa al mondo. Mi dissero "ti darà i superpoteri". Ero un bambino, amavo i supereroi e, come tutti quelli della mia età, volevo essere uno di loro. Mi fidai e lo bevvi. Non ricordo cosa successe dopo. Quando mi svegliai, mi ritrovai sullo stesso lettino di quel bambino, incatenato per via delle convulsioni che mi dissero di avere avuto. Mio padre arrivò subito dopo e... Parlò con i suoi colleghi di fronte a me. Loro gli dissero di avermi trovato sdraiato a terra, incosciente e con la boccetta della formula tra le dita. Io non dissi la verità, forse perché sapevo che mio padre non mi avrebbe creduto o magari perché ero impaurito dall'idea che mi avrebbe tolto i superpoteri. Quindi stipularono un accordo: avrebbero fatto gli esperimenti su di me, ma con un'attenzione maggiore per evitare la mia morte. Quell'attenzione non mi venne mai data davvero.»
Parlava piano e buttava dentro ogni parola il dolore del suo ricordo. Ash sentì un brivido percorrere la sua schiena al solo pensiero di quanta paura avesse potuto provare un piccolo Azazel in quel momento. Sentì un secondo sospiro, e il corvino riprese ad aprire e chiudere ripetutamente il vecchio accendino.
«Mio padre si lasciò controllare dalla sua ossessione per la conoscenza. Gli esperimenti diventarono sempre di più, la maggior parte subordinati dai suoi colleghi. In quel periodo lui non c'era mai per via di mia madre. Dopo la sua morte, uscì completamente di testa. Non facevano più anestesie, mi lasciavano urlare dal dolore perché volevano sapere per quanto ancora potessi resistere prima di morire. Furono tante le volte in cui rischiai di raggiungere la morte e, ad un certo punto, iniziai a sperare che accadesse... Preferivo morire piuttosto che convincere mio padre a smettere. La mia forza, che tutti voi mi dite di invidiare, non è altro che frutto di una sofferenza disumana. E ad essa, si aggiunge il dolore per il suicidio di una madre e per la morte di un padre.»
«Cos'è successo a tuo padre?» gli chiese Ash.
«Dicono sia stato un incidente stradale, ma sono certo che fosse volontario. Molti scienziati lo invidiavano per le sue scoperte, compresi i suoi colleghi. Parlavano male di lui quando non c'era e io fingevo di dormire. Loro sono state le mie prime vittime, e da lì non mi sono più fermato.»
Vendetta, la sua vita oscillava sul filo della vendetta. E sotto, di esso una valanga di cadaveri crescevano sempre più. Gli occhi del biondo si lasciarono coprire da un velo di dispiacere... Aveva fatto suo il dolore di Azazel, forse fin troppo. Voleva chiedergli tante cose per giustificare quella tagliente sofferenza ma, prima che potesse farlo, Azazel poggiò la schiena sullo schienale della panchina e portò la tempia sulla sua spalla... Non avevano mai avuto un contatto così ravvicinato, o così amichevole. Ash posò la testa sulla sua, e il suo respiro venne immediatamente inondato dal buon profumo che quei capelli neri e bagnati emanavano. Anche il suo odore sapeva di pericolo e dolore.
«E la cicatrice sull'occhio?» gli domandò in un lieve sussurro, come avesse paura di rovinare la melodia della pioggia.
«Volevano scambiare il mio occhio con uno artificiale, ma l'operazione fallì perché non riuscivo a stare fermo. Feci cadere l'occhio e il mio si danneggiò quando venne rimesso al suo posto». Azazel ricordava ogni cosa, ogni minimo particolare di quella cantina e ogni conversazione tra suo padre e quei due uomini. Ricordava numeri e formule pronunciate, barattoli e organi posizionati negli scaffali impolverati; gli scatoloni pieni di provette e siringhe usa e getta, le librerie piene di vecchi libri che si incastravano alle scrivanie affollate da fogli e aggeggi di vario tipo. E poi c'era quel letto, quel terrificante letto che spostavano da una stanza all'altra, da quella in cui svolgevano le operazioni a quella in cui lo lasciavano riposare, con le catene alle caviglie. La parte peggiore, però, restavano gli esperimenti, quando la sua pelle si lacerava e rimarginava di continuo, quando il sangue scivolava via dai vasi sanguigni e annegava il suo corpo. E le gambe che si rompevano, le braccia che si spezzavano, gli organi venir estratti e rimessi l'attimo dopo. E infine, quelle dannate scatole di metallo dentro le sue braccia per nascondere i pugnali di sua madre. Ricordava perfettamente l'operazione per installare quei marchingegni. Gli avevano completamente aperto la testa per collegarli al suo sistema nervoso, affinché le lame uscissero ogni qualvolta provava una sensazione di pericolo oppure pensava di volerle usare. Ash rabbrividì, più dal disgusto che dal dispiacere. Ma non volle chiedergli chi avesse avuto il coraggio di fare una cosa del genere perché, se la risposta fosse stata suo padre, si sarebbe lasciato trasportare da quelle emozioni che a stento riusciva ancora a controllare.
«Perché hai voluto vendicare tuo padre nonostante tutto questo?»
A quella domanda, Azazel sollevò il viso e portò il cielo dei suoi occhi tra i cristalli azzurri del biondo.
«Era mio padre, Ash. Non riuscivo a vederlo come la figura cattiva della situazione, e non riesco nemmeno adesso. Lui mi ha reso il supereroe che ho sempre voluto essere.»
«Azazel, non...». Non era vero. Suo padre gli aveva solo rovinato la vita, ma Azazel avrebbe continuato a coltivare quell'idea per il resto della sua esistenza. Perché era suo padre, era il suo eroe. Avrebbe potuto fargli tutto il male del mondo, ma lui sarebbe comunque rimasto posseduto dall'amore di un figlio per il padre. Eppure, gli occhi di Azazel si spegnevano ogni volta che lo pensava o nominava... La sua anima, il suo cuore e il suo respiro non riuscivano davvero a vederlo come un padre. Perché quell'uomo, in verità, non aveva fatto altro che distruggere la vita del suo bambino. Tuttavia, lui continuava a restare attaccato a quel sentimento e a quella figura, come se la sua presenza fosse l'àncora che lo stava salvando dalle alte onde della vita. Fu quello il motivo per cui, piuttosto che parole, uscì un solo sospiro dalla bocca di Ash. Portò poi una mano sulla sua guancia e la accarezzò con il pollice. Non disse nulla, o forse un "sei troppo innocente" con lo sguardo. Ma Azazel non lo notò perché chiuse gli occhi e si lasciò beare da quella carezza, che tanto gli ricordava sua madre. Ash era stupito dal fatto che non stesse sentendo una sola lacrima scivolare lungo la sua guancia e bagnargli i polpastrelli. Come poteva, una persona, raccontare tutto quel dolore senza lasciarsi andare? Non era umano, Ash ne era convinto. Era un mostro, dall'anima del diavolo e dal corpo di un criminale. Eppure, al di là di quella freddezza, sapeva ci fosse molto di più... Sapeva ci fosse la voce di suo padre che gli urlava di non piangere. Azazel lasciò crollare il suo viso e le loro fronti si legarono insieme alle punte dei loro nasi. Era stanco, Ash poteva percepirlo dal sospiro che uscì dalle sue labbra rosse. Perciò lo lasciò riposare sulla sua fronte fredda e bagnata dalle goccioline di pioggia, approfittando di quella vicinanza per studiare i suoi lineamenti.
«Aslan.» pronunciarono quelle labbra, e il nominato strabuzzò gli occhi prima di staccarsi dalla fronte pallida dell'altro.
«Cosa?» gli domandò, in un tono di voce sorpreso.
«Perché non mi hai detto il tuo vero nome?»
Ash spostò di colpo la mano dalla sua guancia, quasi come fosse stato folgorato dalle fiamme della sua pelle, e, l'attimo dopo, si girò verso il prato.
«Perché...» si fermò per mandare giù la saliva, e quel gesto gli diede il coraggio di riportare lo sguardo su di lui.
«Tu come fai a saperlo?» gli chiese.
«Sono entrato nel suo studio. Ho letto tutti i fascicoli e ho scoperto delle cose.»
«Li ho letti anch'io qualche anno fa.» ammise il biondo, deglutendo ancora.
«E non te l'ho detto perché ho cercato in tutti i modi di dimenticarlo. Quel nome mi ricorda di non sapere chi sono...»
«Il tuo nome non determina la tua persona, Ash». A quelle parole, gli occhi cristallini del biondo sorrisero... Non la sua bocca, ma i suoi occhi. Azazel aveva ragione, non era il suo nome a renderlo ciò che era, come Romeo non era solo un Montecchi e una rosa sarebbe rimasta tale anche con un nome diverso.
Nascose un sorriso, ma Azazel notò già le iridi luminose. Quindi schiarì la gola, poi tornò nel suo solito stato di serietà.
«Non dirlo a nessuno. Gli altri non devono sapere.» esclamò, e il corvino si limitò ad annuire. Alla fine, la linea che separava il cielo di Ash e il mare di Azazel svanì davvero, e la notte li rese un'unica ombra.
STAI LEGGENDO
L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)
RomanceGli occhi sono davvero lo specchio dell'anima? Nonostante non ci sia una vera e propria risposta a questa domanda, coloro che sono entrati in quell'occhio e hanno avuto la fortuna di uscirne vivi raccontano di aver visto l'anima del Diavolo al suo i...