- IL MAESTRO YOSHIDA -

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Tic…Tac… Tic… Tac…
Azazel prestava attenzione al ticchettio del suo orologio per ignorare la tempesta che aveva dentro. Il vento danzava con le foglie degli alberi e le finestre continuavano a muoversi di qua e di là per via della bufera. Ogni tanto, capitava che qualche goccia uscisse dal rubinetto danneggiato nel bagno della stanza. Nulla di tutto ciò, però, giungeva alle sue orecchie perché, tra un ticchettio e l’altro, le voci nella sua testa lo allontanavano dalla realtà. Stava cercando un modo per parlare alla luna ma quella notte non era lì ad ascoltarlo, coperta dalle morbide nuvole grigie e dalle gocce che scivolavano lungo il vetro della finestra. Perciò dovette fare i conti con sé stesso, ancora una volta; non che capitasse così spesso. Non si ascoltava mai, tendeva a spegnere l’interruttore che aveva dentro per non dare libero arbitrio a quelle parole confuse. Ma a volte capitava che fuggissero nel bel mezzo del silenzio per mescolarsi in un enorme frullato di emozioni.
Odiava le emozioni.
A dire il vero non le capiva nemmeno.
Non faceva altro che pensare a sua madre, a suo padre, a tutto ciò che dovette subire prima di entrare in quel castello. E poi ancora, ai suoi compagni di squadra, alla sensazione di non essere adatto per quel posto, e alla sfuggente idea che il suo compagno di stanza somigliasse alla donna che lo aveva cresciuto.
«Che ci fai ancora sveglio?»
Quella voce, impastata dal sonno, pose fine alle tante altre e diede un minimo di sollievo al petto oramai pesante del ragazzo.
«Potrei farti la stessa domanda.» disse lui, senza distogliere lo sguardo dal cielo. Non ebbe neanche il bisogno di guardarlo… Sapeva che fosse lui dal momento in cui udì le coperte venir spostate e i suoi passi farsi sempre più vicini alla finestra. Aveva anche memorizzato il suo profumo, i suoi movimenti silenziosi e il tono profondo e vibrante da appena sveglio.
«Non riesco a dormire con tutti questi rumori.» rispose Eren, mentre si avvicinava allo stipite opposto della finestra. L’altro, invece, sorreggeva il corpo del corvino.
«Nemmeno io.»
«Non credo si tratti dello stesso rumore.»
Azazel portò le sue attenzioni sul rosso, ma non reagì in alcun modo alle sue parole. Sapeva bene di cosa stesse parlando, il caos che aveva dentro era visibile solo agli occhi più attenti. Perciò stette in silenzio, ad assaporare il freddo della notte e il dolce profumo che proveniva dai capelli arancioni. Finché poi, per qualche strana ragione, non si ritrovò a chiedergli «Di che parli?». Preferiva la sua voce al silenzio.
«Sei rimasto sveglio anche la scorsa notte nonostante il silenzio. Quindi immagino che il tuo rumore si trovi da un’altra parte.»
«Spiegati meglio.»
«La tua testa. Non smette mai di fare rumore, o sbaglio?»
Alla sua risposta, Azazel non seppe come reagire. Sospirò con fatica l’aria pungente di quella fredda notte e riprese ad osservare il panorama da dietro il vetro bagnato, ma senza prestarvi davvero attenzione.
«Tu parli troppo.» ribatté, dopo interminabili secondi di quiete.
«Lo dici soltanto perché ho ragione.»
Il corvino staccò il busto dallo stipite in un movimento improvviso, quasi spezzando il respiro di Eren e l’aria che li circondava; si portò poi davanti al ragazzo oramai in posizione di difesa, e strinse i denti con forza, o forse la lingua per distrarre la sua rabbia.
«Oh oh, ho beccato un punto debole.» sussurrò il rosso, intento a spingere la sua schiena contro la finestra per allontanarsi dal petto dell’altro.
«Affatto.»
«Sicuro?». Eren aveva il mento alzato, gli occhi socchiusi in due appuntite fessure e un’espressione indecifrabile in volto, un misto tra paura e soddisfazione. Azazel fece l’ennesimo sospiro, infine un passo in avanti, portandosi a pochi centimetri dal corpo di lui.
«Mi dai sui nervi.»
«Sì? Allora perché stamattina hai cercato di aiutarmi? Mh?»
Il corvino aprì la bocca per rispondere, ma non una sola parola uscì da quelle labbra carnose e dagli angoli perennemente spinti verso il basso. Strinse i denti, per ritirare la risposta che avrebbe voluto dare, e si allontanò da quel petto caldo. Avrebbe voluto dire tante cose, rispondere alle sue domande per liberarsi da quell’enorme peso; ma non lo fece… Perché parlare, avrebbe dovuto significare mettere a nudo le sue debolezze. E lui, quelle, non le mostrava mai. Mise le mani dentro le tasche del pigiama, e lo guardò dalla testa ai piedi in una indiretta minaccia. Gli stava dicendo “non cercare di esplorarmi” o “non cercare di conoscermi”.
«Notte.» pronunciò infine, prima di nascondersi sotto le coperte.

L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora