La mattina seguente, il castello intero venne svegliato da rumori continui. Per via del poco preavviso, i domestici correvano da una parte all'altra della struttura per velocizzare il loro lavoro. Avevano aperto una stanza ma, proprio come si aspettavano, era inagibile. La muffa era su tutti gli angoli del tetto e l'acqua delle tubature scorreva lungo la carta da parati vecchia e rovinata. Il pavimento era sporco, i mobili ricoperti da un lenzuolo che li avrebbe protetti da quei danni... Ma non si salvarono nemmeno loro. Fecero di tutto per concludere quel lavoro, ma fu umanamente impossibile. I tre nuovi letti vennero messi nelle uniche camere agibili. Uno in quella di Ash e Bryan, un altro ancora in quella di Ray e Denver, infine l'ultimo nella stanza di Eren e Azazel. I ragazzi, tuttavia, non erano in camera quando ciò avvenne. Come ogni mattina, le loro lezioni impegnavano il loro tempo fino all'ora di pranzo. La lezione della Signorina Kim fu parecchio dura. Quel giorno, si impegnò a farli sudare e patire di dolore fino ad accasciarsi a terra. Ci provò perfino con Azazel, ma con lui non ebbe successo. Alla fine della lezione, i ragazzi si fermarono negli spogliatoi e subito dopo tornarono nel castello. La notizia dei nuovi tre arrivati sembrò non toccarli minimamente, anzi. Sembravano averlo completamente cancellato dalla mente. Ma le parole del Signor Latham riaffiorarono all'improvviso quando Azazel sentì un'auto raggiungere il ponte. Il veicolo scuro e lucido salì lungo la stradina della collina e si presentò ai loro occhi come la più grande delle curiosità, o la peggiore delle scoperte.
Il supervisore uscì dalla parte anteriore dell'auto e aprì con un rapido movimento lo sportello posteriore. Da lì, una gamba snella poggiò il suo piccolo piede a terra, poi l'altro prima di uscire completamente. Man mano che usciva dalla macchina, la sua figura si faceva sempre più chiara: aveva i capelli neri come gli abissi - con le ciocche laterali che le coprivano il viso e il resto raccolto in una coda stretta -, gli occhi affilati come mandorle e le labbra grandi e decorate da un anello argentato. La sua tuta nera e attillata rifletteva la luce del sole, e i suoi occhi neri penetravano in quelli dei ragazzi. Le sue gambe nude della seconda arrivata uscirono dall'auto subito dopo, attirando le attenzioni della squadra. Gi stivaletti di cuoio si fecero spazio nel prato, laddove prese posizione accanto alla compagna. Era più alta dell'altra ragazza, completamente l'opposta. I suoi capelli biondi erano luminosi, i suoi occhi castani diventarono color miele sotto i riflettori del sole. Aveva un naso sottile, le guance rosate e delle labbra provocanti, come le braccia che aveva incrociato al petto. Azazel aveva una strana sensazione addosso. Il formicolio alle mani lo stava allarmando di qualche pericolo imminente, ma non capiva cosa ci fosse di tanto pericoloso in quelle due ragazze. Fu l'ultima persona, l'ultima ragazza, a fargli comprendere la ragione di quella sensazione alle dita. Aveva il suo stesso viso, la stessa altezza, lo stesso sguardo affatto innocente. Erano la copia l'una dell'altra, ma completamente diverse l'una dall'altra: lei aveva i capelli castani, gli occhi che tendevano ad un colore più scuro e un abbigliamento più sobrio rispetto alla gemella. A differenza della bionda, vestita con un top nero e dei pantaloncini in pelle, aveva un jeans strappato alle ginocchia e una maglietta bianca.
E mentre Azazel fremeva al pensiero di averle incontrate ancora una volta, i ragazzi rimasero stupiti al pensiero che i nuovi membri fossero delle donne. E sapevano bene anche chi fossero... La prima era "Occhi di gatto", criminale giapponese fuggita in America per ragioni incerte. Le altre due, invece, erano le "Gemelle Medusa", conosciute con questo nome perché si diceva pietrificassero o, meglio dire, uccidessero chiunque le guardasse. Erano belle come i denti aguzzi di una pantera nera o i petali velenosi della pianta di dafne. Ed erano pericolose proprio come essi, non più gli omicidi commessi tanto quanto per il loro traffico illegale di veleni.
«Loro sono Nari, Maya e Raya.» disse il Signor Latham, seguendo lo stesso ordine con cui uscirono dall'auto. La prima fece un cenno disinvolto con il capo, le altre due allungarono in contemporanea l'angolo della bocca verso l'alto.
La tensione che Azazel percepì all'improvviso venne smorzata da un sussurro proveniente alla sua destra.
«Sembrano le super chicche.» disse Ray a Denver, che fece di tutto per non esplodere in una fragorosa risata.
«Ragazze... Loro sono Denver, Ray, Azazel, Ash, Bryan ed Eren.» continuò il supervisore, elencandoli ad uno ad uno con lo stesso ordine con cui si affiancavano. Anche Ray e Denver sorrisero.
Gli altri, per ragioni al di fuori di loro, non erano dell'umore per farlo. Il Signor Latham andò via dopo le solite raccomandazioni, permettendo così alla tensione di tornare più forte di prima.
Eren tornò immediatamente in camera per evitare una qualsiasi interazione con le ragazze o con gli altri compagni. Bryan strinse loro la mano, seguito poi dagli altri. Azazel fu l'unico a non salutare. Rimase, infatti, con le braccia incrociate e il petto gonfio, come se nessuno potesse vederlo. Si accorse troppo tardi che una di loro avesse fronteggiato la sua figura per porgli la mano.
«Azazel. Non pensavo potessimo incontrarci ancora.» disse lei, e la sua voce acuta entrò nelle orecchie dell'altro con avidità, ricordandogli così la notte del 16 luglio dell'anno precedente.
«Maya.» rispose Azazel, con un cenno di saluto nel tono di voce, prima di stringere le dita sottili della ragazza tra le sue.
«Non sei cambiato di un solo capello.»
«Non posso dire lo stesso di te.»
Azazel ricordava ancora quella notte. Gli capitava spesso di dover fare i conti con le guardie del corpo delle sue vittime, più di quanto sperasse. E quel giorno, quel 16 luglio, avvenne ancora.
Era entrato nella villa del Signor Ribeiro, un ex scienziato dall'età avanzata. Aveva sentito spesso quel nome tra le mura di casa, e non erano mai piacevoli i commenti del padre sul suo conto. Preso dalla rabbia della sua morte, uccise anche lui. Quando entrò nella sua villa, però, si imbatté nelle gemelle. Aveva sentito parlare molto di loro nei mesi precedenti. Ma ancor di più nei successivi, quando iniziarono a trafficare i veleni del loro defunto capo. Dalle spalle scoperte della biondina, poté notare la grande cicatrice che il suo pugnale gli aveva lasciato. La sorella, invece, lo superò senza dire una parola... A differenza di Maya, con lei era stato meno delicato. Ricordava ancora la quantità di sangue che uscì dal suo petto quando il pugnale la trafisse. E nonostante fosse sopravvissuta, quella notte non sembrava essere solo un lontano ricordo per lei. Dall'occhiata che lanciò ad Azazel, fece comprendere, infatti, di star provando ancora un sentimento d'odio nei suoi confronti.
«Potrebbe pugnalarti da un momento all'altro, ti avverto.» commentò la sorella, solo quando entrambi distolsero le attenzioni dalla figura ormai lontana di Raya.
«Dovrebbe riuscire ad avvicinarsi a me, prima.»
A quelle parole, Maya gli sorrise con astuzia e andò incontro alla gemella, permettendo così a Ray di avvicinarsi a lui.
«Le conosci?» gli chiese.
«Ci siamo scontrati l'anno scorso. Ma non lasciatevi intimorire, non sono brave come fanno credere di essere.»
«Intimorire? Ma le hai viste? Sono le ragazze più belle che abbia mai visto.»
«Ne avrai viste davvero poche, allora.»
Azazel si allontanò nell'istante in cui Ray venne distratto dalla risata di Denver e raggiunse ben presto la sua stanza. Lì, il terzo letto fu per lui come un pugno in un occhio, ma un ottimo punto su cui prestare attenzione per distrarsi dal rosso. L'aveva guardato per un istante prima di notare il nuovo arredo. Era tornato su quella poltrona, con la solita coperta e il fuoco sul punto di spegnersi. Quando spostò nuovamente lo sguardo verso quella figura, notò che stava tremando. Si avvicinò quindi alla finestra e la chiuse in un colpo secco, poi prese uno dei piccoli tronchi di legno che riposavano al fianco destro del camino e lo mise sul fuoco. Infine, utilizzò il soffietto per ravvivare le fiamme. Si sedette poi sul tappeto e portò le mani in avanti per riscaldarle dal freddo che gelava quella stanza. O forse il suo cuore.
Eren era tornato a non parlare, a non mangiare, a non dormire o a farlo troppo. E la causa non poteva che essere lui.
Aveva sbagliato, ancora una volta. E stava facendo di tutto per non pentirsene. Durante quelle settimane di solitudine, aveva compreso quanto stupido fosse stato per aver detto quelle cose ed averne fatte tante altre. Non si era pentito di aver trascorso un'intera sera con lui, anzi. Spesso quel ricordo riaffiorava nella sua mente per dargli un briciolo di sollievo dopo i suoi incubi. Una parte di sé, però, si pentiva ancora delle sue azioni. Eppure era strano... Lui non faceva altro che provocare disordine nella vita degli altri, senza mai pentirsene. Ma allora, per quale motivo si sentiva così tremendamente in colpa? Il petto gli pesava, gli occhi non si riposavano mai durante la notte. Aveva un solo pensiero fisso, un pensiero che forse non avrebbe mai soddisfatto...Voleva chiedergli scusa. E provò con tutto sé stesso a schiudere la bocca e aprire il cuore per far uscire tutto quel suo pentimento, ma la voce di Eren anticipò la sua, ammutolendolo.
«Non dire niente.» sussurrò, come se avesse sentito il rumore delle sue labbra che, pian piano, si dividevano. Non voleva sentire la sua voce, non voleva guardarlo negli occhi. Non voleva avere niente a che fare con lui.
«Altrimenti?» sussurrò, senza voltarsi.
«Altrimenti me ne vado». Azazel sentì il respiro bloccarsi in gola, il cuore accelerare i suoi battiti e perderne altrettanti. Il tono di voce che Eren aveva usato era la causa. Era severo, impassibile, a tratti sereno. E a quelle parole, il corvino non poté fare altro che portare il mento sulla spalla per puntare lo sguardo su di lui. Anche la sua espressione appariva severa e impassibile, ma serena non lo era affatto. Eren aveva il cuore diviso in due a metà, tra la paura di ricominciare a vivere e il terrore di morire di nuovo. Si era chiuso dentro le solide mura della prigione, con le chiavi oramai appese in gola. E cercava di dare un senso ai colori che vedeva fuori dalla finestra, mentre il bianco e il nero gli aprivano le ferite. Azazel avrebbe voluto parlargli da dietro le sbarre, dirgli di non piangere. Ma lui non sentiva gli uccelli cantare, il rumore ormai era parte di lui. E nessuno era in grado di spiegare a due occhi chiusi la bellezza delle stelle. Perciò sarebbe rimasto lì dentro, senza rendersi conto di quanto bello fosse il mondo là fuori. Al di là di quella porta, un gelido vento avrebbe scompigliato i suoi capelli. E magari un giorno, chissà, sarebbe riuscito a portare con sé anche il suo dolore. Ma Eren non avrebbe mai messo piede fuori da quelle mura che circondavano il suo cuore. L'unica cosa da fare era abbatterle da fuori. E forse, Azazel vide in questo un nuovo obbiettivo da raggiungere, un desiderio da accontentare.
«Volevo soltanto sapere come stessi.» parlò con calma, attirando lo sguardo di Eren sul suo. Non disse una parola, si limitò a guardarlo con gli occhi avvolti dal nero delle occhiaie. E in quel silenzio, riuscì a trovare il coraggio per rispondergli.
«Non lo so.» sussurrò, prima di riportare le sue attenzioni sul fuoco rovente.
«Non sento niente.» aggiunse, in un pensiero detto ad alta voce.
Azazel venne ipnotizzato da quelle parole, dal suo viso stanco, e il suo petto venne catturato dagli artigli delle colpe, che lo costrinsero a parlare. Dopo interminabili minuti di silenzio e con le pupille rivolte verso le fiamme rosse che tanto gli ricordavano lui, confessò...
«Sai... Io non ho paura di niente, di nulla tra le cose di cui si potrebbe avere paura. Ma ho paura di provare emozioni, come se farlo potesse rendermi vulnerabile». Non poteva credere di averlo detto. Tuttavia, per quanto stupido si stesse sentendo, sentì il peso farsi più leggero. Perciò continuò e, ancora una volta, Eren divenne la sua luna.
«Ho passato la mia intera vita rinchiuso in una stanza, obbligato a non versare una singola lacrima perché apparire debole non mi era permesso. Né tantomeno ridere o sorridere, perché era una cosa seria e, come tale, anche io dovevo esserlo. Adesso tutti mi guardano dalla testa ai piedi come se vedessero quel pezzo mancante del puzzle e stessero cercando disperatamente una soluzione per riempirlo. O forse è solo una mia impressione e quello a guardarli dalla testa ai piedi sono io, con invidia, perché loro non si sentono deboli quando provano emozioni.»
Eren registrò le sue parole come una penna su un foglio, così rapidamente da fargli male la mano e a tal punto da sentire il peso di esse.
«Il Signor Yoshida, il mio precedente maestro, una volta mi disse che le nostre emozioni sono la nostra arma più potente, e siamo noi a decidere se esserne vittime o seguire la loro onda per non annegare. Io ci sono annegato dentro, troppe volte. Ho provato rancore, dolore, voglia di vendetta... E sensi di colpa.»
Si interruppe, d'improvviso, come colpito da qualcosa. Era il nodo alla gola causato dalla paura di mostrarsi vulnerabile. Eppure lo mandò via, anche se con difficoltà, per spogliarsi delle sue insicurezze e mostrare a qualcuno di essere ancora un umano.
«Da persona che non prova nulla, se non il rimpianto di non aver imparato a farlo, ti dico: prova emozioni.»
Eren sentì il cuore perdere un battito, la luce nei suoi occhi ricominciò a risplendere. Lui lo sapeva, sapeva quanto sforzo stesse facendo Azazel per dire tutto questo. E avrebbe conservato quelle parole per sempre, in un frammento del suo cuore spezzato. Poi, venne catturato dallo sguardo di Azazel e la sensazione di nudità lo fece rabbrividire. Ma non si chiuse, non stavolta. Si lasciò guardare in tutto il suo pallore e permise al maggiore di scrivergli sopra come fosse un diario segreto, accettando anche gli scarabocchi che Azazel portava dentro da una vita. Quel ragazzo portava dentro di sé la pesantezza di mille frammenti, pensò. Frammenti che non riusciva a ricomporre in quelle pagine bianche. La sua mano tremava su quel foglio, come se avesse paura di raccontare la sua vita. Eppure, i suoi occhi parlavano per lui. Scrivevano per lui. Urlavano per lui. Facevano tutto nella nullità del suo sguardo. Lui era i suoi occhi, e lo sapeva così bene da svuotarli della propria anima per impedire a chiunque di catturarla. Eren, però, riuscì a farlo.
«Non fare il mio stesso errore. Prova emozioni, Eren. Proprio come la prima volta che ti ho conosciuto. Goditi la tua esistenza e prova emozioni; perché senza, la vita non è vita.»
Eren si sentì schiacciare dalle macerie che aveva dentro. Il dolore picchiava così forte da obbligarlo a lasciar cadere le lacrime lungo il suo viso e il suo collo, a cui tanto mancava impregnarsi della colonia di lui. Azazel provò una strana sensazione di fronte a quella tristezza. Era invidioso perché Eren riusciva a buttarla fuori oppure era addolorato dal pensiero che fosse stato lui a causare quelle lacrime? Qualsiasi fosse la risposta, non gli importava. Eren aveva mostrato ancora una volta le sue emozioni, senza paura.
«Non posso.» sussurrò il rosso, distogliendo lo sguardo. Poi, la manica lunga della maglia gli asciugò le lacrime in un movimento svelto e colmo di disagio. Azazel ne fu devastato, si sentì quasi deluso da sé stesso. Ma come poteva biasimare Eren? Come poteva pretendere che lo ascoltasse dopo tutto quello che gli aveva fatto? Il maggiore sospirò nel silenzio, che lo calmò e lo tese al tempo stesso. Si sentì come la corda di un violino torturata da mani inesperte.
«Perché?» pronunciò, solo dopo aver mandato via ogni minima insicurezza dalle corde vocali.
«Provare emozioni implica anche amarti.»
Bastarono quelle parole per raddoppiare il peso che poco prima aveva mandato via. Non era cambiato nulla, le sue parole avevano solo peggiorato le cose. Ma quando Eren abbassò lo sguardo, un angolo della sua bocca si sollevò.
Provare emozioni implica anche amarti.
Era vero, lui lo capiva meglio di chiunque altro. Lui era il primo ad impedire a sé stesso di ammalarsi di quella pericolosa malattia. E avrebbe voluto estirpare le radici dell'amore che Eren provava per liberarlo dalla gabbia che le sue mani avevano creato. Amore, era questo ciò che provava Eren nei suoi confronti?
Il suo battito accelerò, di nuovo e più di prima, ma il motivo non fu doloroso. O forse sì, perché l'idea che qualcuno lo amasse non gli piaceva affatto. Non era fatto per l'amore, né tantomeno per essere amato. Ma non fu quella dichiarazione la causa di quel fremito lungo la sua schiena. A farlo rabbrividire fu l'idea che, nonostante lo sapesse, Eren stava comunque provando ad amarlo.
«Amare il caos non è mai una buona idea.» sussurrò, e lo sguardo del rosso si alzò nell'immediato.
«Parli come se potessi sceglierlo.»
«Non puoi?» chiese Azazel, nascondendo un sorriso.
«No... È troppo tardi». A quel punto, Eren divenne la bocca dei suoi pensieri. Quei pensieri che, per quanto avesse voluto, non riusciva a cancellare. Il maggiore soffocò un altro sorriso, ma la luce che aveva negli occhi venne catturata dalle pupille dell'altro. Eren, allora, si chiese il motivo di tale scintilla.
«Allora amami.» gli disse il corvino.
«Perché dovrei?» rispose il rosso, in un tono di voce crudele.
Era una bella domanda, pensò Azazel. Una bella domanda con una pessima risposta. Perché avrebbe dovuto amarlo? Non lo meritava, né tantomeno era in grado di ricambiare con la stessa quantità d'amore. Ma Azazel, quell'amore, lo desiderava più della vendetta e della felicità.
«Non lo so. Decidi tu se ne vale la pena.»
«No. Dimmi perché dovrei amare. Dimmi perché dovrei amare te.» parlò il minore, stavolta in un ordine più che in una domanda.
Azazel sentì il cuore riscaldarsi, odiava quella sensazione. Eren aveva già da tempo fatto suo il suo cuore di ghiaccio. E come le prime calde temperature di primavera, l'aveva sciolto e fatto fiorire. Poi, vi scrisse sopra il suo stesso nome con la più dolorosa delle lame. Azazel, tuttavia, non riuscì ad impedirglielo... Perché Eren era quel tipo di veleno che faceva effetto giorno dopo giorno, a piccoli passi. E il corvino iniziò a sentire i sintomi solo dopo, solo quando era troppo tardi. Ma non si disintossicò. Lo lasciò cambiarlo, avvelenarlo, soffocarlo... Perché Eren era tutto ciò che aveva sempre desiderato. Era puro come un "quando ero bambino" e di una bellezza paragonabile alle onde del mare tinte dalle sfumature del tramonto. Era brillante come la più grande delle stelle e folle come il Cappellaio Matto lo era per Alice. Ma era anche amaro come l'ultimo tiro della sigaretta che gli rubava al mattino e calmo quanto il silenzio che inondava il bosco durante la tarda notte, che si perdeva a guardare dal balcone. Azazel si perdeva in lui come in essa, come in un labirinto, come in quel castello. O meglio, come faceva tra le sue emozioni. Azazel odiava perdersi, ma amava farlo nei suoi occhi verdi o nei sentimenti che gli faceva provare.
Fece per parlare, ormai convinto di riuscire a chiedergli scusa. Quel silenzio, quella stanza, quello sguardo. Era tutto perfetto. Tutto, tranne la figura che decise di entrare nella loro camera, infrangendone la quiete. Era Bryan.
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L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)
RomanceGli occhi sono davvero lo specchio dell'anima? Nonostante non ci sia una vera e propria risposta a questa domanda, coloro che sono entrati in quell'occhio e hanno avuto la fortuna di uscirne vivi raccontano di aver visto l'anima del Diavolo al suo i...