- LA SUA LIBERTÀ -

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Quell’incontro tra anime si interruppe bruscamente.
Azazel tornò a guardare le fiamme del fuoco ed Eren si alzò di scatto dalla poltrona per andare il più lontano possibile da lui. Schiarì la gola, poi portò le mani sui fianchi in un gesto frontale al letto nuovo. Bryan, invece, si ammutolì quando percepì la tensione tra i due. Le pareti della loro stanza sembravano urlargli di aver appena interrotto un momento importante, ma lui non le ascoltava. Improvvisamente, le parole di Azazel riaffiorarono tra i suoi pensieri e la sua testa le associò finalmente ad un unico nome: Eren. Un borsone pendeva dalla sua spalla. I due compagni si illusero quindi che stesse aiutando una delle ragazze a trasferirsi, ma la sua iniziale nel retro del borsone smontò quella bugia in un battito di ciglia.
«Che stai facendo?» chiese Azazel quando Bryan tornò in camera con uno scatolone in mano.
«Credevi che si sarebbe trasferita qui una ragazza?!» gli chiese, ridendo l’istante dopo. «Ash è andato da Ray e Denver, e io starò qui.»
«Guarda caso.» bisbigliò Eren, alzando le sopracciglia.
«Come se a me piacesse stare qui con voi. È stata la sorte a decidere». Una velenosa risata uscì dalla bocca del rosso quando Bryan uscì dalla stanza. Azazel pressò le dita sulle tempie, poi si alzò da terra.
«Ci sono centinaia di stanze in questo castello.» disse al mulatto appena rientrò.
«Ne stanno ristrutturando una, ma ci vuole tempo. Per adesso dovremmo sopportarci a vicenda.»
Azazel ignorò il suo arrogante sorrisetto e si limitò ad uno sbuffo, poi uscì dalla stanza prima che Bryan potesse dire altro. Non voleva vederlo, come non voleva vedere Eren dopo la conversazione avuta. Sentiva la testa scoppiare per la confusione che quella stanza racchiudeva tra le sue pareti. Aveva bisogno di aria fresca. Raggiunse quindi il giardino, poi la via che lo avrebbe portato ai margini dell’isola e, infine, la riva del lago, laddove l’acqua dormiva serena sul suo letto mentre alberi e piante la circondavano e si riflettevano su di essa. Accese una sigaretta, e la portandola alle labbra ogni volta che la sua testa si faceva caotica, o quando il vento si fermava per lasciar spazio ad un fastidioso silenzio. L’assordante rumore che viveva in lui assillava la sua anima, ed Eren era quello che picchiava più forte, mentre vento e sospiri grigi facevano da sottofondo. Lui era il suono dei suoi pensieri, la sua risposta alla domanda “a cosa stai pensando?”. Eren era il rumore assordante che rimbombava nel suo oblio silenzioso, la voce più alta tra le tante, l’eco più vicino che viaggiava tra le pareti delle sue montagne… Montagne di emozioni, montagne di colpe, montagne di vittime.
Avrebbe voluto abbassare quelle vette, far tacere quei rumori. Far tacere quel rumore. Avrebbe soffocato la stella più luminosa del suo cielo buio, se solo essa non gli desse la direzione giusta da prendere. Che poi, giusta non lo era affatto.
Eren era una strada contorta, una via piena di curve ed ostacoli… Un labirinto. E Azazel voleva scappare da lì, intimorito dall’idea di arrivare al centro e non uscirne mai più. Cosa sarebbe successo se avesse iniziato ad ammettere a sé stesso di provare qualcosa? Anzi, no. Non qualcosa. Lui si stava ammalando della peggiore tra le malattie. Si stava nutrendo del più mortale dei veleni. Eppure, non riusciva a mettere un punto a quelle righe, alle uniche frasi sincere tra quegli scarabocchi, alle parole scritte con l’inchiostro invisibile… Come se non vederle gli avrebbe permesso di dimenticarle.
Fumò ancora, in un gesto vizioso e ripetitivo. La nuvola grigia usciva ripetutamente dalla sua bocca e si disperdeva nell’aria, inquinandola con il suo odore. Azazel manteneva la testa sollevata verso il cielo e guardava le onde del fumo farsi spazio tra le braccia del vento. Avrebbe voluto essere una di quelle onde, nociva per un attimo e scomparsa in quello dopo. Teneva gli occhi chiusi, e si lasciava illuminare dalla calda luce del sole. Poi sparì, come se una nuvola l’avesse nascosta. Aprì lentamente le palpebre e un viso curioso apparve davanti a sé, giustificando quell’ombra.
«A cosa stai pensando?». Era Denver, quella nuvola. Azazel portò quindi lo sguardo verso il lago, ma non gli vietò di sedersi al suo fianco.
«A niente.» rispose. “Ad Eren” avrebbe voluto dire, ma non permise a quelle parole di sfuggire alla sua bocca.
«Impossibile. Tu pensi sempre a qualcosa». A quelle parole, Azazel si voltò verso di lui. Stette in silenzio e lo studiò, per la prima volta. Conosceva bene i suoi lineamenti, si perdeva spesso a guardarli e a chiedersi come fosse possibile tale delicatezza ed eleganza in un uomo. Aveva il viso piccolo, un sorriso grande e puro nascosto da labbra sottili e rosse. Il suo naso alla francese gli concedeva un profilo perfetto, e i suoi occhi tondi gli donavano un aspetto dolce. Erano grandi, del colore del miele. E Azazel si accorse solo allora delle macchie scure che navigavano in essi, poi perfino del neo sulla tempia e un altro sul suo labbro superiore.
Era sereno, calmo come le acque di quel lago, e Azazel provava una leggerezza immotivata ogni volta che gli stava accanto, anche in momenti in cui cercava di leggerlo e capire cosa gli passasse per la testa.
«Cosa te lo fa credere?» gli domandò, spezzando il filo del silenzio su cui stavano camminando.
«Hai sempre quello sguardo.» disse Denver, indicando il viso del corvino con il dito indice. Azazel ne seguì la punta con gli occhi, poi li ripose su di lui.
«Quale sguardo?»
«Non batti mai le ciglia quando pensi. Te ne sei mai reso conto?»
Azazel non diede una risposta. Non subito, almeno. Cercò di pensare a quei momenti in cui la sua vista non era in focus perché troppo concentrato su altro. Era vero, non batteva mai le ciglia quando parlava tra sé e sé, come se chiudere le palpebre potesse rompere il sottile filo dei suoi pensieri.
«Adesso sì.» rispose, e Denver sorrise quando le sue ciglia, dopo un istante di riflessione, batterono.
«Hai lo stesso sguardo prima di fare qualcosa che ci porta ad allontanarci da te e tu da noi.» parlò ancora, poco dopo aver voltato lo sguardo verso il lago. Denver aveva le ginocchia alzate al petto, le braccia legate alle gambe in una posizione che lo faceva sembrare più piccolo di quanto non fosse già. E permise ad Azazel di guardare il suo profilo illuminato dai raggi del sole mentre rifletteva su ciò che il compagno aveva appena detto.
«Questo mi fa capire che lo fai di proposito e non perché sei uno stupido.» continuò. Azazel non sapeva cosa dire, forse perché aveva ragione o magari Denver non avrebbe creduto ad un suo “non è vero”. Quel ragazzo, per quanto silenzioso fosse, leggeva le persone come fossero libri aperti. Aveva prestato attenzione a questo suo dettaglio proprio come Denver aveva fatto con i suoi occhi aperti durante i momenti di sovrappensiero. Lo aveva notato soprattutto durante le ore di pranzo o di lezione. Ray era incomprensibile a volte, riusciva a capirlo solo lui. Sapeva cosa intendesse quando diceva “passami quel coso che sta lassù”, e a volte anticipava le sue frasi come gli occhi fanno prima della bocca. Non lo sorprendeva quando si trattava di Ray. Lo faceva, invece, quando quella sua qualità non si limitava solo a lui.
Lo aveva fatto anche con il maggiore, una volta. Erano agli allenamenti, la squadra divisa in due per giocare a “preda e predatore”. In questo gioco, le prede avrebbero dovuto nascondersi nel bosco e i predatori cercarle e macchiarle con la tinta che colorava le armi, come segno di vittoria. Azazel era una delle prede e, nonostante di odiasse quel ruolo, non aveva fatto nulla per mostrare il suo dissenso. Ma Denver lo capì, si tolse il polsino che segnalava la sua posizione da preda e glielo diede, poi fece lo stesso con la pistola e i coltellini macchiati di inchiostro. Non si scambiarono una parola. Denver gli sorrise e se ne andò nella squadra delle prede senza fiatare, non lasciandogli nemmeno la possibilità di ringraziarlo.
«Lo facevo anch’io». Quelle parole spezzarono le ali della quiete con leggerezza… La sua voce era così delicata da sembrare una delle sue piume.
«Quando eravamo piccoli, sentii una conversazione tra il Signor Latham e il capo. Il Signor Atkins stava parlando di una missione, ma il nostro supervisore alzò la voce dicendo che fosse troppo presto… Non eravamo pronti. “Tanto prima o poi moriranno. È inevitabile”. Fu questa la risposta del capo… Avevo tredici anni. E sentire quelle parole mi cambiò drasticamente, perciò mi allontanai da chiunque perché avevo paura di soffrire alla morte di uno di loro. Un giorno, però, Ray venne a parlarmi e cambiò il mio modo di vedere le cose. Mi disse “Legarti a qualcuno ti renderà più forte. Avere qualcuno su cui contare, una spalla su cui piangere. Non scappare dalle persone, altrimenti ti ritroverai da solo. Se mai uno di noi dovesse morire, io starò al tuo fianco. E se sarò io a farlo, ci sarò comunque”». La sua voce suonava delicata tra le note del vento. Era così calmo da rasserenare perfino Azazel, come fosse un calmante. E lui lo ascoltava attentamente, come se stesse cercando qualcosa a cui aggrapparsi in mezzo a quelle parole.
«Non è per la vostra possibile morte che mi sono allontanato.» disse, imitando la sua tranquillità.
«Lo so. Lo hai fatto perché hai paura.» pronunciò Denver, attirando l’attenzione del suo orgoglio. Gli occhi di Azazel sputarono veleno verso il castano, ma l’incontro con i suoi lo calmò di colpo. Le sue iridi erano così luminose da fargli capire che non avesse parlato con arroganza… Il suo sguardo era pieno di genuinità, quasi ingenuità.
«Non vuoi legarti a nessuno perché non vuoi provare affetto e amore, cose che rientrano nella categoria delle emozioni.»
Azazel non aveva mai osato ammettere quella parte di sé, e sapere che qualcuno lo avesse fatto prima di lui lo devastava. Quel posto lo stava indebolendo a tal punto da non riuscire a nascondere ciò che aveva dentro… D’altro canto, Denver sembrò intenerito, dispiaciuto. Si chiese cosa lo portasse a rifiutare così tanto le emozioni… Sembrava averne la fobia. Il castano gli sorrise con delicatezza, poi si avvicinò al suo viso.
«Accadrà comunque, Azazel. Un giorno, magari non oggi, non con noi. Ma arriverà qualcuno a cui vorrai bene e che amerai. Questo perché sei un umano anche tu. Sei forte, sei invincibile, ma resti un umano. Tutti noi proviamo dei sentimenti, per qualcuno o per qualcosa. Perciò accadrà e non riuscirai a fermare la cosa, perché l’amore non è qualcosa che puoi controllare. Puoi solo nasconderlo, ma ciò ti renderà un vigliacco. Nascondere i propri sentimenti è da vigliacchi.»
Vigliacco, gli aveva dato del vigliacco. Azazel stava cercando la rabbia negli angoli più remoti del suo petto, ma non la trovava. Non poteva essere arrabbiato, non con lui e non davanti a quella verità. Perché era vero, era un vigliacco e lui era il primo a saperlo. Ma più che vigliacco, si sentì impaurito… Aveva la sensazione che quel giorno e quelle persone di cui Denver stava parlando, fossero già arrivati. Era per loro che provava emozioni, era per lui che sentiva il veleno dell’amore viaggiare tra le sue vene. Sentì il fuoco ardere sotto la sua pelle, i brividi danzare nella sua schiena come fosse un palcoscenico. Quel momento, quel silenzio, quel ragazzo. Si era ritrovato in uno di quei frammenti di tempo che avrebbe felicemente conservato nel suo cuore per sempre. E avrebbe fatto di tutto per non dargli una fine.
«È una sorta di autodifesa.» disse. Voleva sentire ancora quella melodiosa voce. Voleva fosse quella a dare una risposta alle sue domande.
«Autodifesa da chi? Da noi?». Le labbra di Denver si distesero in un sorriso che copriva metà volto. I suoi occhi luminosi confusero quelli di Azazel, che sembrò non comprendere la ragione di quella risata. Lo stava prendendo in giro?
«Sei un nostro amico, Azazel. Gli amici si ascoltano e si proteggono. Si rivelano per quello che sono, con emozioni e difetti compresi. Non potremmo mai usarli contro di te.»
«Ma chi vi dice che non lo farò io?»
«Ci consideri tuoi amici?». A quella domanda, il corvino diede un punto al contatto visivo che avevano mantenuto per tutto quel tempo. Respirò l’aria fresca che sovrastava il lago e il profumo d’erba bagnata si insediò nelle sue narici. Con essa, il dolce profumo di Denver.
Amici. Non aveva mai avuto amici. Non sapeva cosa li rendesse tali, cosa gli desse quell’etichetta che li manteneva legati alle vite degli altri. Forse non ci credeva, alla parola “amici”. Erano solo persone che condividevano sé stessi ad altre persone. Lui aveva condiviso qualcosa, a volte con Ash, altre volte con Bryan, e con Eren più di quanto potesse immaginare. Loro erano suoi amici? E Denver, con cui stava parlando con tale serenità? O Ray, che ogni tanto appariva divertente ai suoi occhi? O loro, semplicemente loro tutti insieme, che in un modo o nell’altro lo trattavano come una persona normale e che gli concedevano la libertà di cui tanto aveva bisogno?
«Non so cosa sia un amico, Denver.» gli rispose, e il castano sorrise quando vide quelle palpebre ben salde e aperte. Sapeva che stesse pensando…
«Cosa senti quando stai con tutti noi?»
Azazel sospirò, poi guardò dritto verso le iridi castane. Voleva chiudere al meglio quel frammento di ricordo.
«Libertà.» rispose, ma avrebbe voluto dire molto di più.
Libertà, quella cosa che stava cercando disperatamente da una vita e che arrivò solo quando entrò in quella squadra. Libertà, dai mostri che vivevano in lui e dalla corda che la vita gli manteneva stretta al collo. Libertà, come fosse ali di uccello in volo. Allora, i suoi occhi si illuminarono al ricordo del primo sabato sera passato con quei ragazzi.
«Rendila il tuo significato di “amico”, allora.»
Denver aveva messo una cornice a quel frammento. E Azazel non disse nulla, proprio per non rovinarla. Il castano fece lo stesso, sapeva di aver colpito nel punto giusto e che non dovesse aggiungere altro. Si sollevò quindi da terra e gli concesse una mano, infine gli disse: «Su, abbiamo lezione.»

L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora