- L'ALBA -

1.3K 73 30
                                    

Stava tornando tra le braccia della sua libertà.
Quel pomeriggio, i colori del cielo tingevano perfino l'asfalto. Il sole stava per tornare dentro la sua culla, coperto dalle morbide mani del lago. Anche la sua superficie si era tinta di giallo, arancione, perfino di rosa. I gabbiani volavano tra le sfumature del cielo e le soffici nuvole, mentre il vento gli scompigliava i capelli. L'odore del sale gli purificò i polmoni, e la sabbia sui piedi gli faceva patire ogni singolo passo. Al di là della spiaggia, dove la serenità aveva insediato le sue radici, vi era un ponte. E lì, tra i palazzi della città e i granelli di sabbia accompagnati da germogli di erbacce, c'erano loro. Li sentì da lontano, ancor prima di percorrere la strada spianata. Li udiva parlare, chiedere di lui. E più il suo nome veniva pronunciato, più l'impazienza lo possedeva. Lì, il vento era violento a tal punto da far volare la sabbia che i suoi piedi innalzavano. All'inizio di quel ponte, che non desiderava altro che raggiungere, venne travolto. Non dal vento, non dalla bellezza di quel paesaggio infinito. Ma da un abbraccio. Un lungo e caloroso abbraccio che bastò per compensare la continua mancanza d'affetto. Ash lo raggiunse prima di chiunque altro e si lanciò tra le sue braccia. Lo avvolse con le proprie, dandogli un po' del suo calore e lasciandosi scivolare la preoccupazione dalla pelle.
Era dannatamente vivo.
Il biondo respirò il suo profumo dall'incavo del suo collo - in cui si nascose per impedire alle lacrime di sfuggirgli alla vista di quel viso stanco - e lo strinse ancor di più quando quella fragranza gli riportò alla mente i loro ricordi. E sorrise quando si rese conto della rigidità del corpo dell'altro. Azazel aveva gli occhi spalancati dallo shock improvviso. I brividi attraversarono la sua schiena e i fremiti si insediarono presso la pelle a contatto con le mani del suo amico. Sentiva dei pungiglioni lungo quel calore, il cuore farsi veloce tanto quanto quello di Ash. In quel piccolo istante, si sentì legato al filo del biondo, un filo caldo e morbido che non aveva intenzione di lasciare andare. Quel piccolo abbraccio era per lui la cosa più vicina ad una casa. Ash era casa. Come Azazel lo era per lui... Una casa buia e tormentata dai fantasmi, ma posta laddove le nuvole nascondevano i colori del tramonto e si tingevano di giallo.
Azazel si sentì dentro una gabbia, soffocato da un affetto tanto sconosciuto. Ma quella volta, e per la prima volta, preferì la prigione alla libertà. Ash percepì una mano farsi spazio lungo la sua schiena, in seguito anche l'altra. Azazel era rigido come un bambino di fronte a un adulto od una donna in una strada buia... Sembrava aver paura. Il suo tocco era leggiadro, quasi impercettibile, come se fosse terrorizzato dal solo pensiero di potergli fare del male. Così lo strinse più forte, quasi fino a non farlo respirare, per spingerlo a fare di più. Lentamente, la corda della chitarra mollò la presa e la sua schiena si incurvò verso il minore. Lo avvolse con le braccia, in un movimento leggero ed impacciato. Ma lo abbracciò. Era la sua prima volta.
Quando sollevò lo sguardo, il resto dei compagni gli sorrisero e, senza perdere un secondo di più, corsero verso le due figure per dar vita ad un abbraccio che li intrecciò come pezzi di puzzle o il filo delle cuffiette. Calore, delicato calore. Gli ricordava tanto le mani calde della madre.
«Dove diamine sei stato?» gli chiese Ray, senza mollare la presa. E solo dopo quella domanda, ebbero il coraggio e la forza di volontà di frenare quel contatto tanto bisognoso.
«Ve lo spiego durante il tragitto. Ci conviene andare prima che faccia buio.»
«Te lo scordi.» intervenne Denver, attirando ogni singolo sguardo. «È il nostro primo tramonto fuori dalla villa. Non andrò via di qui finché non sarà sparito.» aggiunse. Ray rise e portò un braccio attorno alle sue spalle per indicare supporto. Azazel sospirò, ma non per rabbia. Fu un sospiro di liberazione, gli erano mancati più di quanto osasse immaginare. E sorrise, prima a Denver e poi ad Ash. Poi avvolse le spalle di quest'ultimo con un braccio, proprio come aveva fatto il castano con il suo migliore amico, e si avvicinò alla punta del ponte. Presero tutti posto nella distesa legnosa, l'uno a fianco all'altro come anelli di una catena infrangibile. Il calore di quell'abbraccio era ancora sulle loro pelli, ormai rattristite dal distacco freddo e pungente. Il cielo si faceva sempre più scuro. Sopra le loro teste, le prime stelle illuminarono i loro occhi. E lì, tra la spensieratezza e il profumo della felicità, si sentirono finalmente liberi. Restarono in silenzio, il suono della libertà era piacevole più di qualsiasi battuta e rumorosa più delle loro risate. Poi, quando il buio li avvolse con la sua freddezza, abbandonarono quel posto. Azazel spiegò loro ogni cosa, nei minimi dettagli. Ash lo ascoltava incantato come un bambino in attesa del lieto fine. Ray e Denver, invece, lo guardavano in silenzio mentre la luce della libertà illuminava i loro occhi. Bryan non osò fare nessuno delle due cose, non voleva esprimere la sua opinione su quanto fosse accaduto. Ma era felice tanto quanto loro di non essere più una pedina del Signor Atkins. E per quanto difficile fosse stato, alla fine si ritrovarono ugualmente nella stessa casa, con le stesse persone e con la nuova consapevolezza di non essere più schiavi dell'oppressione.
Questo bastava per renderli felici.
Non capirono appieno le regole del Signor Howell, né tantomeno i nomi dei nuovi compagni di squadra... Ma i visi che, a tarda notte, si abbandonarono sui cuscini, erano segnati se non altro da un'immensa gioia. I visi di chiunque, ma non di Azazel. Una strana sensazione di vuoto lo tormentava da quel tramonto. Furono milioni le volte in cui si chiese dove fosse Eren. Lo tormentava perfino in sogno e nel buio della sua nuova camera da letto, che aveva ancora un letto vuoto. Poteva assaporare la solitudine, lì dentro. E nonostante ne fosse abituato, la presenza del rosso era diventata quella parte della sua quotidianità che più apprezzava. Anzi, l'aveva sostituita con la voglia di compagnia, l'odio per il silenzio. Di conseguenza, quella stanza priva del suo odore non gli permetteva di rilassarsi. Lasciò quindi quelle mura e fece un passo tra le pareti di quel corridoio. Poi un altro e un altro ancora, finché una voce alle sue spalle non lo costrinse a fermarsi. Di colpo, le voci dentro la sua testa sembrarono svanire.
«Azazel...» disse quella voce che, alle sue orecchie, apparve preoccupata. Il corvino si voltò e la figura in penombra si fece più vicina. La luce dei lampioni entrava dalle pareti in vetro, illuminando i capelli castani e gli occhi celesti. Gli spigoli del volto erano più marcati, la leggera gobba sul naso maggiormente evidenziata. Non prestò mai particolare attenzione a quel viso... Solo allora notò la cicatrice che gli macchiava la guancia sinistra. Era Ray.
«Posso parlarti?». Azazel, in quelle parole, ebbe la sensazione di aver sentito più di una semplice domanda. Ray era solito mostrarsi superficiale, l'unico che non era mai stato in grado di inquadrare... O etichettare. Aveva il viso di un Don Giovanni e gli occhi di un angelo sceso dal cielo. E il suo sorriso, uno dei più belli che avesse mai visto, era ormai parte della sua quotidianità.
Ray rideva, sempre. Anche in situazioni serie. Era sempre così felice da sembrare impenetrabile. Nulla lo feriva. Quella notte, però, lo studiò con occhi diversi. In lui non vide più la gioia di un bambino al parco giochi, né l'innocenza dei neonati o la freschezza della brezza mattutina. Quel tono di voce lo fece apparire serio, quasi appassito. Il girasole che aveva dentro aveva perso la sua fonte di luce. Cosa lo turbava così tanto?
Azazel non disse una parola, il suo sguardo parlava per sé. Proprio come lui vide in Ray una grande preoccupazione, anche il castano la notò in Azazel. Il maggiore si avvicinò alla porta della sua stanza, la aprì e lasciò passare il ragazzo, che portò con sé una scia di profumo quasi soffocante, una colonia che gli restava sulla pelle anche dopo un lungo bagno. Aveva dimenticato quel particolare. Ray aveva sempre un ottimo odore. Dopodiché, chiuse la porta alle sue spalle e ascoltò il leggero tonfo del suo corpo sul letto. Non diceva una parola, rimase silenzioso per tutto il tempo. Poi, quando Azazel prese una sigaretta per accenderla e si avvicinò a lui per sedersi al suo fianco, la rubò dalle sue labbra. Il fumo gli arrivò in gola, bruciò le sue pareti e poi uscì, inebriando la stanza e annebbiando la sua vista. Era nervoso, il maggiore lo percepiva dal modo in cui le sue dita tremavano mentre manteneva la sigaretta sollevata.
«Sono stato così impegnato da non accorgermi dell'assenza delle ragazze... Dove sono?» domandò Azazel, spezzando così quel tormentoso silenzio.
«Le gemelle arrivano domattina, sono andate via per affari. Nari è scappata, nessuno sa dove sia adesso a parte Ash. Hanno deciso di restare in contatto... Penso si piacciano.»
A quelle parole, amare risate uscirono dalle loro bocche.
E poi, silenzio.
Ray si guardava attorno e tormentava i piedi l'uno con l'altro. Azazel, d'altro canto, non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Quella versione seria di Ray lo turbava parecchio.
«Ed Eren?» chiese, spezzando la quiete. Il castano si voltò, concedendogli un suggerimento con lo sguardo... Era proprio lui il motivo per cui lo avesse cercato. Sospirò, ma solo dal naso, e afferrò la cicca della sigaretta con le labbra. Stavolta il tiro che fece fu parecchio più lungo, come se volesse tardare il più possibile la sua risposta.
«Ray» lo richiamò il maggiore, facendolo alzare per la troppa pressione. Iniziò poi a girare per tutta la stanza, con la sigaretta tra le dita e gli occhi azzurri puntati sulle pareti bianche. Quella camera non aveva niente di Azazel, e quel letto vuoto causò un buco dentro il suo petto. Non riusciva a dirgli la verità.
«Tornerà.» disse soltanto.
«Dov'è andato?»
«Non lo so, ma tornerà... Lo fa sempre.»
Azazel si alzò dal letto, stanco di tutta quella attesa. Portò le mani dentro le tasche dei pantaloni e si avvicinò alle spalle del ragazzo. E quei lenti ma rumorosi passi costrinsero l'altro a voltarsi.
«Cosa dovevi dirmi, allora?»
Silenzio. Ray non riusciva a guardarlo negli occhi, ma la dura verità lo logorava dentro. Aveva l'urgente bisogno di spegnere quelle fiamme ardenti.
«Ho...» sospirò. «Ho sentito una sua chiamata, stamattina. Ha parlato con qualcuno poco dopo aver saputo della morte del Signor Atkins.»
«Chi?» gli chiese il corvino, interrompendolo. Ray sospirò ancora quando vide le braccia di Azazel incrociarsi al petto. Aveva le sopracciglia abbassate in un'espressione che emanava tanta, forse troppa, rabbia.
«Il Signor Latham... Gli ha detto del tuo piano.»
Le braccia di Azazel caddero ai lati dei suoi fianchi, in segno di arresa. I dubbi che aveva accantonato nei meandri della sua mente tornarono improvvisamente a galla. Forse, Eren non era la persona che credeva fosse.
«Non gli ho mai parlato del mio piano.» parlò il maggiore.
«Ma Eren è astuto, Azazel. E ti conosce... Sa perfettamente cosa ti passa per la testa e ha detto cosa si aspettava che tu facessi. Aveva ragione, a quanto pare.»
«Cosa ha detto esattamente?»
Ray non aveva alcun potere. Non sentiva più degli altri, non vedeva più degli altri. Ma in quel momento, poté udire perfettamente la velocità del battito cardiaco di Azazel o forse la rapidità con cui il suo cuore si stava sfaldando. Azazel era furbo, lo sapeva. Come sapeva che fosse arrivato alla soluzione ancor prima che la dicesse.
«Sapeva del tuo patto con lo Stregone, e che lui volesse te in cambio dell'antidoto. Sospettavano che avreste tentato di uccidere William... Ma avete fallito.»
Il cuore gli salì in gola. Sentì la testa farsi improvvisamente pesante, il respiro bloccarsi per via del nodo alla gola. I suoi occhi si fecero grandi come palle da tennis e sputarono sangue come fossero cuori strizzati da due pugni. Ray indietreggiò, temendo una reazione contro di lui. Avrebbe potuto pensare che stesse mentendo, o che l'avesse detto per una seconda verità. Ma Azazel non mosse un muscolo dalla posizione che assunse allora, se non quelli del suo viso. Più che arrabbiato, sembrava colmo di un disperato senso di vuoto.
«Il supervisore gli ha detto che sta bene. Aveva il giubbotto antiproiettile.»
«Impossibile. No, è impossibile. Ray...»
Un passo rapido verso il petto del minore portò quest'ultimo ad indietreggiare, impaurito da quell'improvviso movimento. In quel preciso istante, però, notò i suoi occhi lucidi e il tremolio delle sue mani, nonostante la penombra.
«È morto davanti ai miei cazzo di occhi. Ho visto il suo sangue, i suoi occhi girarsi, il viso pallido... È morto, Ray!»
Ray non sapeva cosa dire. La sua empatia era così forte da sentire il dolore di Azazel dentro di sé. Allora, i suoi occhi si fecero sempre più lucidi, finché delle lacrime non caddero lungo i suoi zigomi. Il suo sguardo, invece, continuava a dimostrare il suo dispiacere; perciò, lo nascose per non farla sembrare pietà.
«Era solo una messa in scena, Azazel. Il Signor Latham ha evidenziato più volte che stesse bene prima di ordinargli di raggiungerli». I polmoni si chiusero, le sue orecchie riuscivano a udire solo le sue palpitazioni. Tremava e fremeva, e poi tremava ancora per quanto forte fosse la sua presa lungo i suoi capelli. Stava per strapparseli via dalla disperazione, o forse per l'ennesima delusione. Sentì il mondo crollargli addosso. Azazel fissava la figura davanti a sé con le braccia strette lungo i fianchi e i pugni adesso così serrati da sentire le unghie bucare i palmi. Il respiro pesante e il leggero tremolio alle mani lo stavano infastidendo. Lui non era così. Non poteva mostrare nessun segno di debolezza. Non poteva far notare quel peso che lo stava lacerando da dentro e schiacciando lo stomaco.
«Az-». La spalla di Ray venne colpita da quella di Azazel prima che potesse finire di pronunciare il suo nome. Lo vide allontanarsi senza dargli la possibilità di parlare. Poi, sentì la finestra aprirsi e il silenzio dominare le quattro mura. Non sapeva cosa fare se non osservare le sue spalle curve verso la ringhiera del balcone e le dita strette lungo il metallo. Poi, come un delicato filo di carta, quella quiete venne spezzata da un urlo. Solo uno, tagliente come lame e doloroso come una pugnalata. La gola gli bruciava, la voce era improvvisamente sparita. Con essa, anche il briciolo di fiducia che gli era rimasta. Un tonfo susseguì quel grido scattante e rotto... Il suo pugno si scontrò con la ringhiera ancor prima che Ray riportasse gli occhi lucidi su di lui. Il minore fece un passo in avanti, ma si fermò. Lui non era la persona giusta per rassicurarlo, sapeva che le voci dentro la sua testa fossero già abbastanza fastidiose. Lasciò quindi la stanza e abbandonò la figura in balcone. Azazel aveva un ronzio dentro la testa. Un fastidiosissimo ronzio che gli rilegava la catena al collo, quella che Eren aveva slegato per liberarlo. Le sue mani tremavano all'impazzata dalla rabbia, o forse dal terrore, mentre faceva scattare la scintilla dell'accendino. Accese la sigaretta e la sua bocca non si staccò da essa finché non sentì quel fatidico bruciore alla gola... La calma si insediò improvvisamente sul suo viso. Ma solo quello. La sua mente, d'altro canto, era un caos di mille voci e pensieri neri, come fossero un miscuglio dei colori dell'arcobaleno. Improvvisamente, tornò il buio dentro di lui.
Aveva permesso ad Eren di diventare lo spettatore del mondo che aveva dentro, aveva lasciato che vedesse la sua fragilità. E gli concesse il suo cuore oramai ricoperto di crepe per permettergli di guarirlo... Era convinto che l'avrebbe ricostruito da capo, incollando pezzo con pezzo fino a farlo diventare nuovo... Alla fine, invece, non ottenne altro che briciole tra le onde del mare e frammenti sciolti nella lava. Un peso enorme si depositò nuovamente nel suo stomaco: delusione, ecco ciò che sentiva. Delusione verso sé stesso, per essersi lasciato ingannare, distruggere, strappare come un bambino fa con un pezzo di carta nella speranza di non rompere i bordi della figura. Eren, però, aveva strappato a metà quel foglio, disinteressandosi di quelle linee disegnate apposta. Delusione, perché pensava di aver trovato qualcuno a cui appoggiarsi, qualcuno che non lo vedesse solo come un demone o un assassino, o un miscuglio di errori e parole dette per difendersi. Delusione perché, alla fine, tutto si rivelò essere frutto della sua mente e della sua disperata ricerca di amore, di attenzioni, di sicurezza. Ma chi avrebbe mai amato uno come lui? Una risata carica di tristezza solcò il suo viso. Come gli era passato per la mente di fidarsi? Eppure lo sapeva, sapeva benissimo che Eren non fosse colui che mostrava di essere. Sapeva benissimo che non fosse mai davvero sé stesso. Era un manichino che ogni giorno indossava un capo diverso o una marionetta la cui maschera sul viso cambiava ad ogni show... Show, ecco cos'era. Un ridicolo show, una stupida recita dentro cui era inciampato, inconsapevole che lì il mondo funziona con solo con maschere e bugie. Ma allora, perché il cuore gli batteva così forte nel petto? Perché il respiro non voleva saperne di calmarsi? Forse era davvero tutto una finzione, ma non quello che aveva dentro. Azazel accendeva una sigaretta dietro l'altra mentre cercava di convincersi di non volerne sapere nulla, né di Eren né di ciò che avesse dentro lui stesso. D'altronde lo meritava, meritava tutto quel dolore. La freccia del karma lo aveva finalmente preso. Perché alla fine, recare dolore agli altri ha sempre un prezzo. Chissà quale sarebbe stato quello di Eren?
La morte... Provocata da colui che il karma aveva appena colpito. Scosse la testa a quel pensiero malato di delusione. Era un assassino, un mostro, non era umano. E l'idea di uccidere l'amore della sua vita non fece altro che confermarglielo. Ma perché sorprendersi? Sapeva di non potersi fidare delle persone. Anzi, no. Non delle persone, ma dei sentimenti. Alla fine, era lui l'unico nemico di sé stesso. Eppure, un briciolo di sé pensava ancora di non aver incontrato solo le sue maschere. Aveva visto anche emozioni pure, parole sincere... Oppure anche quelle erano solo sue illusioni? E in quel caso, chi aveva costruito quelle bugie dentro di lui? Eren o la sua testa? Perché? Perché era tutto così rumoroso e agitato lì dentro? Voleva urlare, ancora. Voleva colpire la ringhiera, ancora. Ma non riusciva a muoversi, era come pietrificato sulle mattonelle fredde del balcone. E non era riuscito a farlo neanche quando la pioggia cominciò a cadere impetuosa, improvvisa. Un po' come la delusione che provava, che gli bagnava le cicatrici e, come acido o veleno, le riaprivano e peggioravano. La pioggia spense del tutto la sigaretta ormai consumata e un improvviso senso di calma lo avvolse. Si sentì capito. Era così solo e disperato da credere che quella stupida sigaretta potesse comprendere il suo dolore. Eppure, si sentiva esattamente come lei. Un attimo prima ardeva e bruciava, quello dopo era spenta e fragile. Alzò lo sguardo al cielo, fissando le nuvole che - imperterrite - continuavano a buttare giù acqua. Una goccia scese lungo il suo viso, poi un'altra e un'altra ancora. La pioggia pungeva sui vestiti bagnati e sui capelli lucidi come foglie piene di rugiada. Un brivido lo percorse. E poi ancora una goccia. E un'altra. Ma forse non era davvero la pioggia il problema. Forse non era la pioggia a bagnargli il viso. Forse c'era altro. Forse erano quelle lacrime che si promise di non far cadere mai più. Forse erano loro la causa del bruciore della sua pelle. Forse, forse, forse. Sospirò. Perfino il caos che aveva dentro era stanco di fare rumore. L'unica cosa che percepì chiaramente in quell'istante, furono le urla della sua anima...
Facevano male. Ed erano piene di delusione. Totale delusione.



L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora