- IL CAFFÈ ITALIANO -

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La stanza gli appariva vuota senza i calmi e profondi respiri di Eren. Quel silenzio lo tormentava e portava a galla pensieri su pensieri, domande su domande, ricordi su ricordi. La quiete era la sua condanna, perché era in quei momenti che la sua mente si sfogava e le voci picchiavano più forte. E tra di esse, una nuova preoccupazione sorse quando sollevò il polso e, tra il freddo della notte e il silenzio della stanza, vide che la mezzanotte fosse già passata da un bel pezzo. Quando capitava che gli altri svolgessero da soli una missione, non superavano mai la mezz'ora dopo il rintocco della mezzanotte. Eppure, Eren non era ancora tornato... Quell'innocente preoccupazione, nascosta dal bisogno di sentire il suo respiro per non udire il silenzio, gli picchiettava la gabbia toracica e gli smuoveva lo stomaco. Ma si alzò dal letto solo quando si rese conto che la tormenta che aveva dentro non avrebbe smesso di torturarlo nella quiete... Aveva bisogno di caos. Allora si avviò nel retro del castello, laddove due vie si immergevano nel bosco. Decise di percorrere la sinistra, molto più in pendenza rispetto a quella destra che portava alla serra. Stava scendendo lungo la collina e, al limite dell'isola, la strada venne nascosta dalla sabbia. Il lago che circondava l'isola faceva da specchio e rifletteva le lucciole che riempivano il cielo. Insieme alle stelle, la luna illuminava la sua superficie liscia. L'acqua navigava silenziosa, il vento creava un boato tra gli alti alberi di quercia. E poco più in là, un respiro pacato si mescolò al ritmo del suo. Quando voltò lo sguardo, notò una luce arancione accendersi e spegnersi a intermittenza. Quando si faceva più forte, illuminava un viso stanco e quasi completamente catturato dall'oscurità della notte. Eccolo, il caos di cui aveva bisogno.
Il viso di Eren veniva continuamente mostrato dalla scintilla della sigaretta, poi veniva nascosto dal fumo che usciva dalla sua bocca, e l'odore del tabacco si espandeva nell'aria dolce e fredda fino a sparire. Si avvicinò a lui, calmo ma non silenzioso, cosicché il rosso potesse sentirlo arrivare. Nonostante ciò, però, Eren non si voltò verso la sua direzione. Sembrava in preda al panorama del lago, o forse ai suoi stessi pensieri. Ma Azazel sapeva che lo avesse sentito, e ne ebbe la conferma quando non si sorprese nel vederlo sedersi al suo fianco.
«Che ci fai qui? Non ti ho sentito arrivare con la moto.» gli disse il corvino, ma senza ricevere risposta. Le sue attenzioni ricaddero allora sul profilo del compagno che, illuminato dalla luce della sigaretta e da quella della luna, sembrava perso nel suo mondo. Azazel vide una lacrima cadergli sulla guancia, poi scivolare lungo il mento e il collo. La preoccupazione, che poco prima lasciò andare la presa, lo fece tornare teso come le corde di una chitarra.
Non disse nulla, ed Eren fece altrettanto.
Il silenzio li divise per minuti interi, minuti riempiti di sospiri del rosso e respiri calmi del corvino. I pensieri di Azazel erano adesso accecati dalla preoccupazione. Si sentì vulnerabile, spoglio delle sue vesti. Percepiva il freddo entrargli nei vestiti e penetrargli nella pelle, superare le ossa e sgattaiolare nel suo cuore di ghiaccio. Il suo petto era caldo, e niente avrebbe spento le fiamme che ardevano in lui per le lacrime del rosso. Osservava il suo silenzio, e lo pregava con gli occhi di smettere di piangere. Ma Eren non udiva quelle preghiere... Il rumore era oramai parte di lui. Si limitava a respirare con calma e aprire la bocca, per poi chiuderla l'attimo dopo, come se le parole gli fossero rimaste incastrate in gola. Alla terza volta, Azazel rivolse lo sguardo verso il lago per permettergli di parlare senza sentirsi a disagio... Ma nulla, non funzionò. Non erano i suoi occhi a non farlo parlare, ma la sua presenza. Il rosso sembrava spaventato a tal punto da non riuscire a dire una parola. Terminò la sigaretta, nascose la cicca sotto la sabbia, e infine un leggero sospiro uscì dalla sua bocca.
«È buffo...»
Il silenzio venne interrotto, mandato via da quelle parole a prima vista casuali del rosso... Era il pensiero di essere guardato da Azazel a zittirlo.
«Un assassino che non sa di essere un assassino.» continuò, e il freddo di quella notte non parve nulla in confronto al suo tono di voce.
«Io l'ho capito solo oggi». Il suo viso si fece più cupo di prima. Solo la luna era in grado di illuminare i suoi lineamenti con la sua luce grigia, ma ad Azazel bastò per notare una seconda lacrima rigare il suo volto. Stette in silenzio, come le pagine di un diario segreto. E bianco com'era, attendeva solo di essere scritto dalla mano rovinata del ragazzo. Si sarebbe riempito delle sue colpe, e magari le avrebbe fatte un po' sue per liberare il petto dell'altro.
«O forse già da tempo, ma il piacere di esserlo annebbiava l'idea che fosse sbagliato.»
Non sapeva dove volesse arrivare, e la tentazione di chiedergli cosa fosse successo era troppa. Eppure, stette tranquillo e al suo fianco, ad ascoltarlo come la luna faceva con lui. Non gli avrebbe addossato alcuna colpa, e non gli avrebbe dato ragione di pensare il contrario. Però gli piaceva l'idea che Eren gli stesse dando un pezzo della sua sofferenza, e amava il pensiero di stargli concedendo un briciolo di sé stesso.
«Ho ucciso una donna.»
Una terza lacrima venne versata e Azazel la seguì in tutto il suo percorso. Ci vide dell'odio, nei confronti di nessuno se non di sé stesso.
«Era la moglie di Harold Mullen, mi era stato ordinato di minacciarla per impedire al marito di candidarsi. Lei mi ha rivolto una pistola contro e non ci ho visto più dalla rabbia. Quando mi sono girato per andarmene... C'era un bambino.»
Titubava nelle sue parole, probabilmente per trattenere i singhiozzi o per paura di confessare. In entrambi i casi, Azazel si avvicinò maggiormente, fino a toccare la sua spalla con la propria. Un piccolo contatto, e il rosso sembrò tremare all'impazzata.
Le lacrime cominciarono a sfuggirgli con più rapidità, fino a divenire incontrollabili. Eppure, non emanò un suono. Non uno solo che potesse farlo apparire debole agli occhi del corvino.
«Ho ucciso anche lui.» sussurrò, prima che la sua testa si abbassasse tra le sue ginocchia.
«Non avevo armi, e la pistola della madre aveva un solo proiettile prima che potessi spararle. Ho dovuto...» si fermò di colpo. I polmoni gli bruciavano nel petto. Aveva il respiro corto e i singhiozzi erano ormai incontrollabili. Sentiva il cuore perdere un battito ogni volta che quel ricordo riaffiorava nella sua mente... Un coltello, il bambino, una morte lenta provocata dalla sua maledetta paura.
«Non sapevo cosa fare». La sua voce tremava, le sue gambe tremavano, le sue mani tremavano. Non c'era una sola parte del suo corpo che mostrasse sicurezza in quel momento. Aveva paura, la sua ragione era annebbiata dai sensi di colpa. Si era macchiato l'anima per l'ennesima volta, ma ai suoi occhi sembrava la prima.
«Ha... Ha iniziato a correre. Avevo il terrore che potesse urlare per chiedere aiuto e...»
Un'altra interruzione, stavolta dovuta ad un singhiozzo. Si sentiva così vulnerabile da non lasciarsi nemmeno guardare in faccia, e non ci pensò due volte a coprirla con le mani. Lì, Azazel si rese conto che fossero ancora ricoperte di sangue.
Silenzio.
L'aria si riempì di ansimi, mentre il vento gli asciugava le lacrime con le sue violente carezze. Lì, in quella bolla tormentata, Azazel riuscì ad entrare con tale delicatezza da risollevarlo dal suo macigno.
«Fa paura, non è così?»
Bastarono poche parole, una sola domanda, e ciò che sembrava l'inizio di un attacco di panico stava iniziando a svanire nel nulla. Erano rimasti solo piccoli singhiozzi, poi il respiro affannoso e infine solo le lacrime. Nella tranquillità più totale, l'impassibilità era tornata sul volto del rosso, come se il suo cervello avesse appena cancellato i ricordi di un bambino dalla gola tagliata.
«Anch'io ho reagito così la prima volta». Le sue parole viaggiarono nel vento fino ad arrivare alle orecchie del rosso, che si girò di colpo verso il compagno. Aveva uno sguardo incredulo.
Era impossibile, per lui, anche solo pensare che un corpo senza anima come Azazel avesse provato paura durante il suo primo omicidio. Ma non disse nulla, e la quiete tornò a dominare su quella riva.
«Erano i colleghi di mio padre. Mi sentivo in colpa nonostante tutto. Anche questo è buffo.»
«Cosa ti avevano fatto?!» gli chiese il rosso, con il viso ancora bagnato dalle lacrime salate.
«Esperimenti.»
Si zittì. Bastò quella parola per fargli capire che non volesse dire altro... Eppure, in un modo o nell'altro, Eren poté percepire un velo di insicurezza in quella parola. Non era paura, né rabbia, né altro. Era solo insicurezza, come quella di un bambino che prova a pronunciare la sua prima parola. E tornò il silenzio, ancora una volta, ma stavolta per parecchio tempo. L'aria era piena del fruscio degli alberi, le cui foglie danzavano col vento. Il lago era calmo ma si poteva udire il suo leggero rumore, che accompagnava il resto. E infine, la bolla venne dominata dal ritmo dei loro respiri che, per via della loro vicinanza, si stavano pian piano intrecciando tra di loro. Adesso nulla disturbava le loro orecchie... C'erano solo loro. Loro e il loro caos, le loro tempeste, i loro rumorosi momenti di pace.
Il rosso venne avvolto da un'improvvisa curiosità... Avvicinò quindi una mano al viso dell'altro e tentennò nel poggiare le dita sulla sua guancia, laddove la cicatrice si estendeva fino alla fronte.
«Fermati.» sussurrò il corvino, ma i suoi occhi non sembravano dire lo stesso. Stavano divorando, piuttosto, le labbra sempre più vicine di Eren. Il suo corpo si fece caldo all'improvviso, ma non perse il suo controllo... Non poteva perderlo.
Si chiese, però, cosa vedesse in lui per provare così tanto ad un solo sfioro tra le dita e la sua più grande insicurezza. Lo fermò, ancora una volta, ma la presa sul suo polso era più debole della prima. Il suo corpo rabbrividì a contatto con quella pelle ricoperta di sangue e, senza rendersene conto, quella presa divenne una carezza. I suoi occhi si alternavano indecisi tra gli smeraldi e il fiore roseo che decorava il suo viso, e deglutiva, in un'azione ripetuta e ossessiva, come per digerire l'idea di volere molto più di questo.
«Anche questo è opera loro?» gli chiese, rompendo le pareti di quella bolla silenziosa, e poggiò esitante i polpastrelli sulla sua guancia, in un punto poco distante dalla cicatrice.
«Mhmh.» gli rispose.
«Come?»
A quella domanda, Azazel si tirò indietro. Per lui era tutto troppo... Troppo. Non era abituato a quel battito così veloce, né a un contatto così ravvicinato con la cicatrice o ad un'intimità tale da raccontare cosa gli fosse successo. Perciò si allontanò e tornò composto sulla sabbia, con lo sguardo rivolto verso il lago.
Ancora una volta, silenzio.
La bolla di sapone si era divisa a metà.
Una si fece curiosa, l'altra rumorosa.
Eren voleva sapere di tutto e di più. Voleva conoscerlo e trovare un motivo per odiarlo davvero. Azazel, invece, voleva solo fuggire dal pensiero che il suo cuore si stesse pian piano sciogliendo.
«Ladro.» sussurrò, in un pensiero ad alta voce.
Lì, Eren tornò a prestargli le sue attenzioni, stavolta confuso.
«Ladro?» ripeté lui.
«Sì. Ti chiamerò così.»
«Perché?»
«Per il tuo tatuaggio.» gli rispose, senza pensarci un attimo, per fargli credere che fosse l'unica verità dietro quella bugia. In realtà, Azazel non aveva il coraggio di pronunciare il suo nome. Sapeva che le sue labbra lo avrebbero adorato così tanto da non potersene più liberare. Sapeva che se avesse usato il suo nome invece di qualche stupido nomignolo, in qualche modo il suo odio sarebbe diventato altro. E lui aveva paura di questo, come aveva paura di Eren e di tutto quello che provava quando stava al suo fianco. Voleva scappare, da quel lago e da quella casa, da quel nome e da quelle strane emozioni. Da quando aveva messo piede lì dentro, venne pervaso dalla sensazione di non essere più lui.
Non si riconosceva... E non comprendeva tutto ciò che aveva posticipato da una vita: i sentimenti.
Ladro. Ladro. Ladro. Iniziò a ripetere nella testa, nella speranza di dimenticare il suo vero nome. Eppure, era curioso di sentire come suonasse con la sua voce, pronunciato dalle sue labbra e scandito dalla sua lingua. E r e n.
Anche Eren voleva saperlo, ma in quel momento appariva più irritato che altro.
«Non chiamarmi in quel modo.» disse, in un tono divenuto oramai severo.
«Perché?»
Suonava così bene. Ladro.
Eren era un ladro. Era ladro di tante cose.
Rubava la vita degli altri, una fetta di pane in più la mattina e i fiori della Signora Wilson per preparare i veleni.
Ma era ladro di molto altro, di cose che solo Azazel sapeva ma che non avrebbe neanche ammesso a sé stesso.
«Ha un significato importante. Non ti do il permesso di usarlo per insultarmi.»
«Perché no?»
«Perché ti odio.»
Azazel tornò improvvisamente con lo sguardo verso il rosso, che stava giocando con la sabbia tra le sue gambe. La afferrava e la faceva scivolare tra le dita, oppure ci disegnava sopra qualche forma insignificante e che cancellava l'attimo dopo. Poi alzò lo sguardo e lo portò di lato, laddove poteva percepire due occhi blu bruciargli la pelle. E poi il silenzio. Ancora.
Eren non sembrava guardarlo con un'espressione colma di odio, appariva solo così soddisfatto dalla reazione del maggiore da lasciarsi sfuggire il controllo di un angolo della sua bocca, oramai alzato.
«Mi odi?» ripeté il corvino, con incredulità e sarcasmo nel suo tono di voce gutturale.
«Da morire.»
«Ah sì? E perché?»
«Non lo so. Devo ancora decidere.»
Eren riportò le sue attenzioni verso la sabbia e il suo sorriso svanì lentamente nel silenzio, che sembrava riempirsi di qualche ricordo.
«Mi farai sapere il motivo?» gli chiese Azazel, nel vano tentativo di attirare il suo sguardo a sé.
«Dovrai indovinare.»
«E se lo sapessi già?»
Quelle parole fecero riportare lo sguardo di Eren verso il maggiore. Voleva dirgli che fosse impossibile, che non potesse sapere il motivo del suo odio prima di egli stesso. Eppure, dalla sua bocca non uscì altro che un «Dillo», dolce come il frutto che colorava le sue labbra.
«No.»
«Dillo.» ripeté.
«Non voglio.»
«Ma io sì.»
Era assurdo, Eren.
C'era una sola parola in grado di descriverlo, ed era proprio quella...
Era assurdo il suo modo di fare, di cambiare stato d'animo in un battito di ciglia. Ed era assurda il suo comportamento con Azazel, prima in un modo e poi in un altro. L'attimo prima piangeva dalla disperazione, poco dopo si era infuriato, e adesso lo stava provocando. Era indecifrabile, come i testi antichi o i pensieri di una donna. Ancora una volta, gli ricordava tanto sua madre.
E quel pensiero lo incupì d'improvviso, a tal punto da preoccupare il ragazzo al suo fianco.
«Ho detto no.» pronunciò Azazel, con tono più profondo e crudele. E ad esso, Eren tornò serio proprio come il corvino, e morse il labbro inferiore per punizione.
Si alzò, poi sfregò le mani sui pantaloni per far cadere la sabbia rimasta attaccata.
«Grazie, comunque.» disse, ma senza guardare il compagno.
«Ma dimentica tutto. Io non sono il ragazzo che hai visto piangere poco fa.»

L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora