00. Prologo

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Io e mia mamma avevamo un posto speciale, tutto nostro, in cui ci rifugiavamo ogni volta in cui il mondo si faceva troppo stressante. 

Fin da quando ero piccolina Ruth, mia madre, mi portava in questa radura immersa nel verde per ammirare le stelle. Andavamo lì a stenderci sul prato di fianco al faggio che qualche anno più avanti avrebbe ospitato la mia casa sull'albero. Ci mettevamo sdraiate, che nevicasse o che ci fossero temperature insopportabili, noi eravamo in quel luogo, con i volti sorridenti, gli occhi che brillavano e i nasi all'insù, mentre osservavamo un Universo infinito.

Mi ritenevo fortunata perché le poche luci che c'erano in quella zona erano raggruppate dove c'era il centro città. Se andavi fuori, anche solo di cento metri, il buio ti avvolgeva completamente e sentivi solo il gracchiare dei corvi. Magari un gatto miagolava. Forse. 

E lì c'era pace, quiete e silenzio. Le macchine erano lontane perché la strada non arrivava nel mio posto sicuro e quindi non c'era anima viva. Io, quando non ebbi più bisogno della mamma per andarci, correvo lì ogni volta che potevo a rilassarmi, studiare o fantasticare.

Era l'unico luogo nel quale mi sentissi al sicuro e in completa armonia con la natura. 

Il freddo pungente della notte era ovunque, le lucciole che ti volavano intorno perché tu eri così immobile da sembrare quasi morta. Avevo sempre avuto una certa stima per quegli insetti, erano i migliori. Qual era il loro segreto? Perché si illuminavano? Ovvio, era per scappare dai predatori, per dire: "Attento! Sono velenoso.", ma chi gliel'aveva insegnato? No, davvero. Chi? Chi aveva detto agli animali che se si fossero riempiti di colori sgargianti allora i predatori sarebbero stati loro alla larga? L'ennesimo mistero della natura. Adoravo quegli animali perché mi ricordavano le stelle. Era come racchiudere una massa di gas che bruciava idrogeno in un animaletto tanto insignificante che durante il giorno non gli avresti dato nemmeno una lira. E invece guardala, così maestosa nella sua semplicità. 

Lo zio Ford, il padre della mia migliore amica Vanessa, per i miei nove anni aveva costruito una casa su un faggio vicino alla radura. Era dipinta di verde e marrone, per confondersi tra le foglie e io la trovavo semplicemente meravigliosa. 

Le attività che si potevano svolgere sulla mia casa sull'albero e nella radura erano molteplici, davvero. Prima di tutto potevi prenderti una boccata d'aria fresca e staccare i pensieri per un po'. Mi era capitato a volte di andare lì per trovare la concentrazione per leggere o studiare. Studiavo spesso, lì. Era magico, come se il mondo si fermasse per qualche ora. 

E poi, quando calava il Sole, alzavo gli occhi e li spostavo verso l'alto, verso il cielo maestoso e imponente che nascondeva così tanti segreti che non sarebbe bastata una vita intera per svelarli tutti. 

Una bella casa sull'albero che era rimasta il mio rifugio per tutti quegli anni, dalla quale potevo osservare tutto quello che succedeva sia in alto che in basso. Quando arrivavano dei curiosi e si mettevano a chiacchierare sotto il mio faggio, io li ascoltavo, li squadravo e sì, mi impicciavo di tutti i loro affari. Ero sempre stata curiosa e un'abile osservatrice, cosa che facevo spesso – osservare, intendo. 

Le cose che più mi piaceva guardare erano però il firmamento, le persone che passeggiavano al mercato, gli alberi del bosco lì affianco al tramonto, le vecchiette in piazza che sparlavano di tutti, i ragazzi che si allenavano a hockey dopo scuola, mia mamma che cucinava mentre mi raccontava la sua giornata, la mia migliore amica e suo fratello mentre bisticciavano, le lucciole e Kaleb Lost.

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