Capitolo 2.

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«Non sei per niente felice di vedermi?»

Capisco in quel momento che cosa significhi davvero contenere dentro di sé una spietata, impetuosa furia omicida.
«Non mi vedi?» chiedo, ironica e sprezzante. «Sono così felice di vederti che per salutarti ti darei una testata nelle gengive, razza di deficiente.»

Lei, con il suo metro e settanta e il tubino bianco che le fascia il corpo invidiato da sempre, si getta sul divano e si siede come un camionista col mal di schiena.

«Andiamo, Grace» mi sussurra, sporgendo il labbro inferiore come i bambini. «Mi porti una birra?»

Uccidere è certamente un reato. Uccidere è letteralmente un reato. Uccidere è tutto ciò che è definibile reato. E l'unico modo che ho di convincermi è ripetermelo all'infinito. Mi giro, vado verso il frigorifero e porto a sua signoria Rachel Forbes la sua comanda, prima che scappi di nuovo. La stappo con la forchetta che ho lasciato sul tavolo e, poi, quando la vedo appagata e con quello sguardo sereno di chi crede di non aver fatto nulla di male, non riesco proprio a mantenere serrata la mia coscienza: sacrifico il divano. Le svuoto addosso tutta la bottiglia, da capo a piedi, i capelli color mogano le si impregnano di luppolo e il vestito candido la saluta per l'ultima volta. Lei urla, si dimena e si alza. Quando ho finito di imbrattarlo, mi godo lo spettacolo: a bocca aperta, completamente fradicia, sembra un pulcino appena caduto nello stagno delle papere. Rido così forte che il tizio al piano di sopra inizia a battere con la scopa, credo, sul pavimento, facendo rimbombare il mio soffitto con una tenacia incredibile, neanche avessi ospitato i Metallica per un concerto. Soffoco le risate quando si strizza i capelli sul pavimento.

«Sei impazzita?»

«Sei sparita. Di nuovo. Per tre giorni.»

Alza gli occhi al cielo e io torno subito seria, arrabbiata oserei dire. «Lo sai, ormai, che ogni tanto ho bisogno di partire, cercare...»

Non la lascio finire, perché inizio a non poterne più. «Cercare te stessa, il tuo io interiore, ascoltare i tuoi chakra, raggiungere il Nirvana, riconnetterti alla natura, ballare intorno agli alberi, bere vino in un pollaio e tutto quello che ti pare. Ma prima di tutto questo potresti mandare un messaggio? Non un ritrovamento papiraceo, basterebbe un "hey, inutili pezzenti, sono viva".»

«Dai, Grace, non vorrai farmi la predica proprio tu.» Incrocia le braccia, quasi sorpresa della mia brusca reazione. «Tu non rispondi mai prima di un paio d'ore sempre, non ogni sei mesi.»

Sgrano gli occhi. «Rachel? Ti sovviene in quel neurone problematico che gira come una mosca nel tuo cervello che io lavoro? O, almeno, lavoravo.» Non mi risponde, quindi continuo. «Tra l'altro, per me puoi sparire quando ti pare, perché so che hai dei gravissimi problemi mentali per cui non riesci a mantenere stabile neanche la relazione col tuo dannato attico in marmo bianco, ma so anche che tornerai sempre nella tua cabina armadio. Quel che mi preme è che tu eviti di farmi invadere casa dai tuoi familiari, la prossima volta.»

«Lo hanno fatto di nuovo?» chiede, iniziando a spogliarsi. Vado a chiudere le tende, dato che sono al piano terra.

«Sì. Stavolta eravamo al completo, c'era anche Lance. Spenderò il triplo per l'acqua, questo mese.»

«Non dirmi che ha riniziato a fare docce di continuo?»

«Le sue non sono docce, Rachel» correggo. «Sono tempi biblici tramutati in acqua corrente.»

Sorride e sorrido anche io, in un'atmosfera lievemente più rilassata. Faccio un paio di passi di lato fino alla mia camera, dove mi infilo per prendere una maglietta delle mie. Ne tiro fuori una a caso dal mucchio informe che ho creato dall'ultimo cambio armadio, la mia striminzita scatoletta rosa, una sopravvissuta dei tempi delle medie. A capitarmi è una canottiera con lo stemma del festival della birra, bianca e gialla, che a me non sta più da secoli, ormai. Deduco che a Rachel stia persino grande. Gliela porgo, chiudendo la porta, e mi siedo sul divano in segno di pace. Lei mi segue e socchiude gli occhi dopo essersi vestita. Maledetta creatura divina, capisco perché guardano sempre tutti lei quando usciamo insieme. Bagnata fradicia, coi capelli impiastrati di birra, la canottiera stinta e sgualcita di una sagra da poveri contadini, scalza e reduce da non so quante ore di viaggio, Rachel risulta fatta a regola d'arte per un romanzo rosa degli anni novanta; perfino il naso, odiato alla follia da lei perché disegnato in maniera irregolare per la presenza di una piccola gobbetta, risulta così armonioso che non capisco il desiderio viscerale che ha di operarsi. Quando eravamo piccole mi chiese di spaccarglielo, sperando che il chirurgo fosse abbastanza caritatevole da rifarglielo da capo. Mi rifiutai, ma ora che ci penso, per tutto quel che mi sta facendo penare, ho perso l'occasione di darle un pugno. 

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora