Capitolo 34.

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Non ho mai riflettuto abbastanza su tutto quello che sta succedendo.

Penso a questo mentre sto frugando nella valigia, tastando quelle stoffe così scivolose e leggere da fare fatica a riconoscerle.

Sono arrivata qui un mese fa e mi sono ritrovata una sedicenne incinta senza un padre per il suo bambino, una monaca minorenne in procinto di sposarsi con una relazione omosessuale segreta, un sarto che dice di amare la sua futura sposa e che, allo stesso tempo, sembra provare un qualche tipo di attrazione fisica nei miei confronti e un individuo di un metro e novanta di cui non so praticamente niente che vuole portarmi a cena fuori come se non fossimo confinati in un paesino medievale. Meno credibile di un libro di fantascienza di basso rango.

Sbuffo sonoramente quando vedo che nulla mi sembra adatto a stasera, anche perché io non ho la benché minima idea di dove Evan abbia intenzione di portarmi. Certamente preferirei evitare di vedere di nuovo Bree Tanner con i copricapezzoli e sentire l'alito di Chang aleggiarmi sulla testa, ma pur di mettermi un vestito decente sarei disposta a strusciarmi sul palo di quel night club. Qualche volta, in questo periodo di disoccupazione, ci ho perfino pensato, ma quando ho letto per scherzo i requisiti per lavorare come spogliarellista ho visto che la maggior parte dei locali impostano un limite di peso che rispettavo forse a dodici anni. Quindi non ne ho fatto di niente.

Beth, dietro di me, mi chiede: «Cosa cerchi?»

«Un vestito in cui io possa avere la speranza di non decedere» ironizzo, seriamente disperata per la calura insopportabile. «Tuo fratello vuole portarmi fuori.»

Mi siedo sul letto, davanti a lei, che invece si alza con tutta calma e tenendosi la schiena. «Ti dispiace se do un'occhiata?»

«Ovvio che no, Beth.»

Incredula, inizia a osservare i miei vestiti. Appena appoggiato sopra la catasta c'è una gonna lilla che mia madre mi ha regalato per i miei diciannove anni, così Elizabeth la prende e la alza davanti ai suoi occhi, osservandola come se la stesse studiando. Mentre seguo i suoi movimenti, sistemo l'asciugamano che ho stretto sul petto perché, di grazia, oggi era il giorno del bagno. Neanche a farlo a posta.

«Mi piacerebbe avere tutti questi vestiti» sussurra.

«Dovresti conoscere la mia migliore amica» le rispondo. «Ha una stanza solo per i jeans.»

«Durante il Rumspringa sono rimasta incinta in una cabina armadio» dichiara, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

La lascio fare, perché comincio a sentire che si è creato un varco. Forse mi sto solo illudendo e la conversazione si chiuderà qui come sempre, ma stavolta devo almeno provare, perché sembra quasi che Elizabeth mi stai supplicando di parlarne. Altrimenti, perché mai avrebbe tirato fuori l'argomento?

Cerco di ricordarmi che cosa facevo in ospedale, a tirocinio, prima di rimanere senza lavoro. Di donne incinte ne ho trattate a bizzeffe, eppure con Beth mi pare tutto diverso, come se fosse la prima volta. Però so come ci si approccia a queste situazioni e, spesso, con una ragazza tanto remissiva è meglio prima cercare di creare una lunghezza d'onda da cavalcare assieme.

«Io ho perso la verginità sotto un pino e un piccione mi ha beccato un capezzolo» dico.

Beth si mette a ridere con la mano davanti alla bocca, ripiegando con calma il vestito azzurro che aveva preso poco prima e che mi ero dimenticata di avere.

«Almeno tu non hai infilato pagnotte in forno» esclama, rimettendosi a sedere sul suo letto.

Alzandomi, faccio un passo avanti. Manca così poco per riuscire a ricostruire un po' gli antefatti che adesso non voglio perderne l'occasione.

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora