Capitolo 13.

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Il pranzo è finalmente finito. Abbiamo mangiato tutto il pollo che la signora Lancaster aveva arrostito sul fuoco e bevuto un bicchiere di vino a testa.
Quando usciamo, salutiamo con la mano e, ormai, si sono fatte le due o le tre. Evan mi tiene la porta aperta per farmi passare e, quando gli cammino davanti, senza toccarmi mi avvicina una mano alla schiena. Tossicchio, la classica tosse di circostanza.

«Li saluto e torno» fa John. Evan alza gli occhi al cielo.
Tutti e tre nel vialetto, ci guardiamo. Loro con le mani in tasca, io dietro la schiena, intrecciate tra di loro.
«Bene» esordisce il biondo. «Direi che è andata bene, a parte mia madre che apre bocca e le dà fiato.»
«Un po' come te con la patta dei pantaloni.»

Guardo Evan, a metà tra lo stupore e la conferma. Eccone un altro incastrato in questo livello spazio-temporale, che ovunque vorrebbe stare a parte qui, che ci resta ancorato per amore di una famiglia che, assieme alla vita, gli ha donato anche una non-vita.

«C'è una signorina» mormora, con una falsa voce sconvolta.
Evan lo osserva sdegnato, guardandolo dall'alto in basso. Se è per questo che lo disprezza, perché si gode e si crea una libertà sessuale, mi viene spontaneo pensare che non possa essere lui a giudicarlo. Non credo, comunque, sia solo per questo. Non avrebbe senso, ne avrebbe invece, almeno per metà, individuare una sorta di gelosia nei confronti della sorellina. Ma non basta, suppongo. Ci sarà dell'altro e io, ancora una volta, non so niente. Questi, tuttavia, sono fatti loro per davvero.

«Ciao, John» lo saluta Evan, una voce piena zeppa di astio.
«Ciao, cognatino.»

Sì, John, però anche tu non aiuti.

Quando siamo abbastanza lontani e vediamo John rientrare in casa, Evan inizia a parlare.
«Capito perché ci devi stare lontana?»
«Sinceramente no» gli rispondo. «Ma lo farò comunque.»
Annuisce. «Brava.»
«Grazie» sorrido. «Ora mi dai il croccantino?»

Ho deposto l'ascia di guerra, mica mi sono chiusa in una tomba e fatta calare quattro metri sotto terra. Sono sempre io.

«Croccantini non ne ho.»
«Cavolo! Il guinzaglio invece l'hai comprato?»
«Ordinato. Vado a prenderlo domani. Poi lo uso, però.»
Mi è sembrata una velata allusione, ma in fondo non ha senso costruirsi castelli. O forse sì?

***

Mangiamo prestissimo e quasi in religioso silenzio. Anne ha preparato melanzane grigliate e stufato di manzo, credo, tutto così buono che mi sembra un talento sprecato in questa comunità. Elizabeth mangia poco, il giusto per mettersi in piedi, e ci dice che ha fatto qualche maglioncino al bimbo.

«Fai vedere» esclama Evan, pulendosi le mani al tovagliolo. Elizabeth sorride, probabilmente eccitata dalla validazione del fratello. Glielo avrei chiesto io al suo posto, se non lo avesse fatto lui.

Elizabeth torna con due incredibili lavori in lana bianca, ricamati con del filo color indaco.
«Quando li metterà avrà almeno due o tre mesi, Anne ha preso le misure al fratellino di John» ci fa.
«Sono bellissimi» si complimenta Evan, ripiegandoli accuratamente. «Domani se vuoi posso portarti della stoffa e qualche bottoncino.»
«Sì» si entusiasma Elizabeth, battendo le mani. «Hai del tessuto rosso?»
«Elizabeth?» la richiama Anne. «Tessuto rosso? Non siamo mica a Las Vegas.»

Alzo gli occhi al cielo. Santo cielo, che voglia di attaccarla nell'armadio come un cappotto. Un cappotto rosso per Las Vegas.

Non rispondo, perché scatenerei una discussione inutile, ma lo fa Evan al posto mio: «Rossa non la ho, Beth, ma potrei trovarla bordeaux.»

La accarezza sulla schiena mentre glielo dice, decisamente deluso. Beth, comunque, non sembra affatto dispiaciuta. Quando suo fratello le da attenzioni è carica a molla. Mi schiarisco un po' la voce.

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora