Capitolo 26.

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Ci siamo. Anne si è svegliata alle quattro e mezza e ha cominciato a sbattere padelle da una parte all'altra, tanto che noi altri tre ci siamo alzati tutti praticamente venti minuti dopo e siamo quasi rotolati giù per le scale dal sonno.

«Buongiorno» ci ha detto. «Oggi niente colazione. Non c'è tempo.»

«Anne, lo sai che la festa è una cena e non una veglia notturna, vero?» le ho chiesto, gettandomi con tutto il peso sulla sedia.

«Siamo indietro.»

Beth ha sbadigliato e, poi, è tornata a passi pesanti in camera, mentre Evan si è steso sul divano. Ancora al buio, ho preso dalla mensola sulla mia testa una candela e l'ho accesa col fuoco che Anne sta usando per cucinare quello che mi sembra un ottimo polpettone.

«Tu ti ricordi cosa devi fare stasera?» mi ha domandato, intenta a tagliare compulsivamente una povera cipolla.

«Metto il grembiule, prendo i piatti, servo ai tavoli, alle sette comincio e alle dieci stacco. Non metto in imbarazzo nessuno e mi limito a dire frasi come ma che gioia aver ritrovato la strada, buonasera, grazie, prego, viva Gesù.»

«Molto bene» ha approvato.

E la giornata è passata tutta così. Evan che, tranquillamente, chiude l'emporio alle quattro perché inizia la festa, Beth che nasconde una lacrima ladra nel cuscino quando entro per prepararmi, io che continuo a cercare nel suo piccolo armadio un vestito per sopravvivere a questo caldo assassino. Ho l'estremo bisogno di trovare qualcosa con cui poter correre da una parte all'altra dietro gli ordini di Anne senza morire e senza farmi tacciare come meretrice del villaggio. Al nono minuto di contemplazione e tastamento dei tessuti fatti di sudame mi rendo conto che sono destinata a crepare.

Qui giace Grace Latches, senza il becco di un quattrino, tolta all'affetto dei cari perché stremata dal caldo.

Devo andare da John. Non ho altre soluzioni. Evan sta riposando, Anne è uscita per iniziare a preparare i tavoli, nessuno si accorgerà della mia assenza, a parte Elizabeth, che però non credo si metterà a urlare perché sono sparita. Ci metterò poco, basta che meno persone possibili mi vedano e, soprattutto, mi parlino.

Scendo velocemente le scale, apro la porta, esco. Davanti casa non c'è nessuno, il che mi sembra più che buono. Attraverso a grandi falcate i terreni boschiferi, mi tengo sopra le caviglie il vestito così che, magari, possa passare un po' d'aria. Casa Lancaster non dista molto da quella di John, sono circa cinque minuti a piedi e si arriva, passando di qui, direttamente sul retro, dove John ha adibito il suo piccolo studio da sarto e un'insegna colorata a mano, "Sartoria".
Quando vi arrivo, John è proprio lì sulla porta, saluta una signora che ancora non ho mai visto. Lei, per fortuna, mi ignora. La sua testa coperta passa dietro di me e io cammino sul vialetto.
John mi sorride, il che determina la volontà di dimenticare la rissa da criminali dentro l'emporio. Sollevata, perché non ho nessuna voglia di prendere parte a cose di cui so poco e niente, sorrido di rimando. Chiamatesi le ultime parole famose.

«Grace» mi chiama.

Lo saluto con la mano e, quando arrivo davanti a lui, non oso immaginare la tonalità di rosso che la mia faccia ha assunto in questa camminata nella fornace. «Ho bisogno di aiuto.»

«Lo vedo» ridacchia lui. «Entra pure.»

La stanza è piccola, claustrofobica quasi, ma parca di tessuti. Ci sono solo quattro o cinque tavole, ognuna avvolta in una stoffa differente di colori pressoché identici. Sopra al piano di lavoro ne ha un paio di due sfumature un po' diverse di blu, le altre sono bianca, rossa e verde bottiglia. Nell'effettivo, non ho visto nessun altro colore qui. Si sistema al collo il metro usurato e si siede sul piano. «Dimmi tutto.»

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora