Capitolo 46.

870 59 35
                                    

Quando mi sveglio non ho niente da dire. Semplicemente, trovarmi in un letto con l'odore di Evan è un po' la stessa sensazione di quando, da piccola, avevo la febbre e aprivo gli occhi con mio padre che mi aveva già preparato il brodo di pollo. È un parallelismo particolare, probabilmente, ma è la cosa più vicina al cuore che io abbia mai avuto, insieme a tutte le volte in cui mia madre mi ha portato il ventilatore di prima mattina per evitare che il torrido caldo di Boston mi facesse affogare. È come se questi ricordi avessero preso posto in un piccolo cassetto del mio sterno.

Mi rigiro quel poco che basta per accorgermi di star cercando con la mano qualcuno che non c'è. Schiudo gli occhi di botto e subito nella testa mi passano tutti i possibili scenari su dove potrebbe essere Evan, ma quando mi tiro su c'è un biglietto stropicciato sul suo cuscino, scritto a pena blu.

"Buongiorno bimba, sono dovuto andare in emporio per sistemare le ultime cose per la fiera di venerdì. Mi dispiaceva svegliarti mentre sbavavi sulle mie lenzuola. Ci vediamo a pranzo, tieni d'occhio quelle belve di sorelle che ho. Evan."

Non è stato breve, coinciso, criptico. La scrittura sembra curata, precisa, non lo ha scritto a scappatempo, imboccando la porta, e soprattutto mi ha scritto un sacco di parole insieme, forse il discorso più lungo che gli ho visto fare. Mi sorprendo a sorridere e a mettere il labbro sotto i denti per un secondo, finché un tornado non entra in camera urlando: «Indovina che ora è? È l'ora del caffè!»

Un turbinio di capelli scuri si affacciano dalla porta e la loro proprietaria ha in mano un vassoio stracolmo di cibo, che non ha niente a che vedere con i porridge di Anne. Ridacchio quando chiude la porta con il piede e la linguetta in fuori, come se la aiutasse a concentrarsi senza perdere l'equilibrio.

«Rachel, non ho mai preso il caffè. Lo sai che mi fa venire la tachicardia.»

«E infatti io sono un'amica strepitosa e ti ho fatto portare direttamente dal centro città notturno l'unica cosa che bevi oltre all'acqua» si pavoneggia. Un secondo dopo, si siede sul letto con una gamba sotto l'altra e mi indica una bottiglietta arancione.

Batto le mani, entusiasta come una bambina. «Hai chiesto a Marcus di portarmi il succo arancia, carota e limone?»

Mi fa l'occhiolino e annuisce, come a dire "ci puoi giurare". In uno slancio più che sincero mi avvicino a lei cingendole il collo. Dapprima rimane gelida, perché tutto avrebbe pensato, a parte che le dimostrassi così deliberatamente e concretamente il mio affetto. Non serve molto perché mi circondi le spalle con un braccio, schioccandomi un bacio sulla clavicola. Quando ci stacchiamo, mi passa di diritto una sorta di focaccina al rosmarino e indovino gli ingredienti senza neanche guardare: prosciutto e insalata verde. Quando Rachel mi porta la colazione, sceglie sempre tutto ciò che mangiavamo le mattine dopo i nostri pigiama party.

«Hai visto Beth?» le chiedo, improvvisamente memore del disastro di ieri.

«Ho sbirciato prima di venire qui. Sta allattando la bambina» mi informa, togliendomi dal petto un incredibile gravame o comunque alleggerendo tutti i pensieri che mi corrono nella testa. «Allora, che ti ha fatto stanotte Carter Junior per far palesare la tua parte umana? Addirittura un abbraccio da parte tua mi sembra esagerato.»

«Quanto sei melodrammatica.»

Scuote la testa. «Melodrammatica io, Grace? Ti ricordi che la prima volta in cui mi hai detto che mi vuoi bene ho dovuto costringerti?»

Alzo gli occhi al cielo, esasperata. «Rachel, è stato molto tempo fa.»

Spalanca la bocca. «Due anni fa, maledetto orso delle nevi che non sei altro. Due anni fa dopo quindici anni di amicizia.»

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora