Capitolo 41.

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Ciao, mi chiamo Grace Latches e al mio primo parto sono scoppiata a ridere in faccia alla partoriente.
Era il 27 febbraio del 2019, a Boston si gelava, nevicava come Dio la mandava giù e il reparto di ginecologia e ostetricia era letteralmente deserto. Al mio ventesimo giorno di tirocinio non avevo ancora svolto il mio lavoro. Non avevo fatto altro che controllare le scadenze dei farmaci e tenere la mano a donne sole che saltellavano sulla palla di gomma con le contrazioni. Puntualmente io prendevo l'ascensore e loro sfornavano il loro marmocchio.

Quando tornavo a casa mi versavo mezzo calice di vino e valutavo l'ipotesi di essere una sorta di repellente umano per vagine, poi andavo a letto e sognavo le dilatazioni. Un delirio. Le mie colleghe mi avvertivano in continuazione. In particolare la capo reparto, Becky, lei ci teneva a specificare ogni particolare.
«Quel buco si squarcia, ragazzina. E hai tutta la vita davanti per vedere un buco che si squarcia.» Faceva una pausa per infilarsi un bocca un altro cucchiaio di gelato alla crema. «Ognuno reagisce in modo diverso. Ho visto tirocinanti svenire, avere un attacco di panico, vomitare. E credimi, non vuoi sentire quella sensazione. Io la prima volta, venticinque anni fa, ho avuto la dissenteria per due settimane.»

Stento a collegare i disturbi intestinali di lunga gestazione con il disgusto per un parto, ma ad oggi accetto la sua storia senza pormi davanti troppe questioni.

Fatto sta che finalmente qualcuna decise che era il momento di mettere al mondo suo figlio mentre ero di turno io. Avevo trattato con diverse donne, anche ingestibili, ma quella fu un travaglio anche per noi ostetriche.
Urlava come un'ossessa e terrorizzava le altre peurpere maledicendole per non aver gridato tanto quanto lei.
Era in ospedale da sedici ore, era dilata a cinque centimetri da due e non c'era verso che quella bambina si schiodasse dal suo utero.

Quando finalmente iniziò la fase di discesa, la bambina aveva il cordone intorno al collo e sua madre continuava a intimarmi di portarle sua piastra per capelli. Era sola e non potevamo fare altro che cercare di tenerla ferma.

«Leghiamola» mi propose Becky.

Io avevo strabuzzato gli occhi. «Credo che possano denunciarci per una cosa del genere.»

«Dio» sputò, continuando a tenere giù le mani della donna, che si chiama May. «Preferisco il carcere.»

Perfetto. Avevo scelto un corso di laurea assolutamente sereno da affrontare.

Solitamente, quando il cordone è attorno al collo del bambino, si procede con un taglio cesareo, ma il parto ormai si era spinto troppo in là e il ginecologo non aveva intenzione di aprirla. Così ce la cavammo in tre, con un medico a cui non importava assolutamente nulla che la mamma sembrasse essere posseduta dal demonio.

Fatto sta che Becky doveva cercare di tenere ferma May, che non era esattamente esile, e il medico mi disse: «Procedi.»

«Procedo?» mi girai. «Con un sedativo per orsi?»

«Vieni al mio posto ed esegui la manovra.»

«Per il cordone?»

Quando lo vidi annuire sbiancai. Qualsiasi cosa che avevo fatto nella mia vita aveva impiegato un po' di tempo. Non ero una di quelle in grado di fare tutto e subito, tantomeno con le cose pratiche, perciò in quel momento mi sentii morire perché di quella manovra avevo letto solo nei libri. C'erano un paio di vite in ballo, però, e a giudicare dal rossore di Becky e dalle sberle che May riusciva a tirarle supponevo che sarebbero salite a tre.

Quindi, con santa pazienza, cercai di parlare alla paziente. «Okay, May, ora respira e spingi alla prossima contrazione.»

E lei, piangendo, lo fece. La bambina venne quasi completamente fuori, abbastanza da poter infilare un dito sotto al cordone ombelicale che l'aveva quasi resa cianotica e poterle dare respiro.

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora