Capitolo 42.

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«Dio mio, ma ci passa secondo te?» mi chiede Rachel, dandomi dell'acqua che al momento non posso bere.

Beth non grida più, ormai. È bravissima, respira come si insegna ai corsi preparto e spinge a ogni contrazione nella maniera giusta. Evan la guarda come se fosse l'unica cosa importante sulla faccia del pianeta Terra, Marcus invece ha detto che preferisce restare fuori per non vomitare tutto in terra. Anche questo, malgrado il simpatico disprezzo che ho per lui, è un atto d'amore.

«Ci passa, certo che sì.»

Quando la testa fa fatica a uscire, penso di nuovo di non farcela. Mi asciugo il sudore con il gomito, lavo le mani nel catino di acqua che Anne sta reggendo in ginocchio e poi cambio i guanti. Ho un telefono a disposizione da poter usare e voglio farlo. Voglio davvero, perché continuo a pensare che qualcosa possa andare storto.
È meglio una reputazione rovinata che una neomamma morta.

Ma Beth non muore.

Inizio a tremare quando penso al liceo.
Non ci riuscirò.
Non sono capace.
Sono disoccupata per un motivo e alle superiori me lo avevano già detto.
Non ho un posto nel mondo perché nessun posto ha bisogno di me.

Beth però ne ha.
Respiro profondo.

Le donne sanno partorire, i bambini sanno nascere. Ricordi, Grace?

Sì. Sì che me lo ricordo.

«Okay, Beth» dico, sorridendo tesa. John che fa in su e in giù per le stanza non aiuta, però. «Stai andando benissimo, davvero. La prossima spinta ci butta fuori la testa quasi di sicuro, va bene? Ti voglio bella convinta.»

Scuote la testa in segno di assenso, mentre Evan le posa sulla fronte mille baci. Dio santo, aiuto. Non posso pensarci ora.

«Ci vorrà ancora molto?» mi chiede Anne.

«Perché? Hai da fare qualcosa?» le chiede Evan, sarcastico.

«No, ovviamente no» risponde lei, abbassando lo sguardo. «Volevo solo sapere.»

Sono praticamente le prime parole che si rivolgono da quando l'ha trovata con Mary, quindi mi sembra uno scambio abbastanza equo. Civile, addirittura, nonostante l'imbarazzo di lei e la punta di tagliente ironia di lui.

Tutto procede abbastanza tranquillamente. Io ripeto a me stessa che posso farcela mentre provo a infondere coraggio a Beth, lei mi ringrazia e il ciclo rinizia. Insomma, così.

Mentre aspettiamo la contrazione, mi guardo intorno. Rachel ha una camicia da notte mia addosso e si tortura una ciocca di capelli seduta per terra accanto a me, John si mordicchia un'unghia e la ombra si allunga scura fino a Evan, che fissa sua sorella e le parla sommessamente. Non riesco a vedere Anne, ma dietro di me sta sicuramente tenendo il catino d'acqua. E poi ci sono io. E c'è Beth, stanca e sudata. Ormai sono le dieci e un quarto e ce l'abbiamo quasi fatta.

Tant'è che alla contrazione successiva, Beth riesce a spingere abbastanza da fare uscire, con un po' del mio aiuto, la testa. Immediatamente mi accorgo che non ha, grazie a Dio, il cordone ombelicale intorno al collo e poi, vedendola paonazza, le dico che ci siamo quasi, che basta un'altra spinta e sarei riuscita a girare le spalle. E infatti, ci riesco.

Tra le braccia prendo una meravigliosa, umida, insanguinata bambina che a pieni polmoni strilla e piange con uno slancio vitale incredibile. Non riesco a guardare nessuno, purtroppo, e nel mio lavoro mi perdo le reazioni. Immediatamente Anne mi passa la coperta sterile che le avevo detto mi sarebbe servita e io, riuscendo a malapena a pulire la piccolina, ce la avvolgo dentro. Mi alzo, con un po' di fatica, ed Evan riesce finalmente a spostarsi. Beth è a occhi aperti, si tira su nonostante tutto, e prende tre le braccia sua figlia. Sì, sua figlia.
Poi fa una cosa. Una cosa meravigliosa, così naturale che nessuno glielo aveva detto, ma le viene totalmente naturale. Scopre il seno e ci appoggia la bimba che, nonostante sia nata prematura di due settimane, sembra orientarsi abbastanza bene nello spazio.

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora