Capitolo 35.

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Tw: in questo capitolo si parla di taglie di vestiti, peso, cibo. Se sono tematiche per voi delicate (e vi capisco bene) saltate, non è così cruciale. Sappiate solo che Evan e Grace sono in un drive in, il cinema all'aperto. Baci e forza e coraggio.💜

Ci è bastato passare nel bosco, prendendo la strada lunga, quella dove c'è da scavalcare un vecchio albero caduto a terra la scorsa estate che nessuno ha ancora tirato su, per passare inosservati.

Non abbiamo parlato molto durante la passeggiata, semplicemente del più e del meno e del fatto che domani dovrei fare il turno di mattina, dato che affluiranno ordini a non finire per via della fiera.

Quando arriviamo alla staccionata, però, Evan si ferma e tira fuori dalla tasca il vecchio cellulare che gli ho visto usare anche quando abbiamo preso in prestito la moto. Quando lo apre, c'è una chiamata già in arrivo.

«Non dirmi che sei in ritardo» parla.

Non riesco a sentire bene ciò che la voce risponde, ma so che Evan nasconde un sorriso e questo mi basta per sapere che sta andando tutto secondo i piani. Bene, perché sto morendo di caldo e non vedo l'ora di sentirmi addosso la seta del vestito azzurro e nient'altro. E le mani di Evan, ma questo è un altro discorso.

Evan chiude la chiamata senza salutare, tipico degli americani, anche mio. I miei vicini italiani salutavano mille volte prima di attaccare e ricordo di aver pensato che fosse una forma molto più educata, sebbene un po' prolissa.
E a proposito di chiamare, porca miseria, ho dimenticato di sentire Rachel, che mi aveva detto di volermi parlare. Perfetto. Così mi porterà il muso fino a Natale.

Il suono di due macchine e le luci anabbaglianti mi risvegliano e mi costringono a non pensare che in Polynesia Rachel si sta mangiando le mani, probabilmente. Io di motori non ci capisco niente, ma la macchina bianca è un po' più grande di quella nera. Sono due auto normali, insomma, che altro posso pensare a parte questo.

Da quella nera, scende un uomo piuttosto basso, con due occhialoni da sole scuri - inspiegabile, visto che sono le dieci di sera - e una ragazza da quella bianca. Devo mettere a fuoco la vista per riconoscere i tratti di Bree Tanner, che stavolta vedo vestita. Conserva comunque una sconfortante bellezza, avvolta in un paio di pantaloncini corti e una canotta bianca. Chiudendo lo sportello viene verso di noi e si getta addosso a Evan, abbracciandolo e schioccandogli due baci sulle guance. E io, nella stoffa calda e sudata, con i capelli appiccicati al viso, la pancia gonfia e le cosce che sfregano e bruciano, mi sento di nuovo la ragazzina liceale impaurita che ero una volta, di nuovo fuori luogo e come se il mondo non fosse fatto anche per me.

Evan ricambia l'abbraccio, il che scarica in me una sorta di brivido, ma lo lascio stare come farebbe chiunque.

Quando Bree si stacca da lui, posa gli occhi su di me. Prego, per qualche secondo, che non mi riconosca conciata così, ma lo fa. Il sorriso che aveva sulle labbra sparisce, il ticchettio delle chiavi che si rigira l'uomo tra le dita è la colonna sonora della mia imminente morte.

«Grace?» chiede. «Grace Latches?»

Ecco. Appunto.

«Pare di sì» rispondo.

Lo sguardo di Bree corre da me a Evan rapidamente, come se stesse cercando risposte da lui che, intanto, guarda me.

«Dio» esclama. «Credevo fossi morta dopo tutti gli accidenti che ti ho mandato.»

Faccio schioccare la lingua, vagamente divertita. «Gentilissima, come sempre. Sei sempre stata meno simpatica di una ginocchiata nelle gengive.»

Non so da dove quelle parole siano uscite, ma so che Evan ha la bocca spalancata, l'uomo ha fermato il gioco delle chiavi e Bree sembra sorridere. Il che mi terrorizza.

Out of place - Questione di "ovunque".Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora